venerdì 24 maggio 2019

UN MORTO NON DIVENTA UN EROE, MA IL GIUDIZIO È DI DIO

RUBRICA DI ATTUALITÀ

"Pensare fuori dalle Righe"



Era il 2016 quando la cittadina di Cetraro balzò agli onori della cronaca per l’assassinio brutale della dottoressa Giordanelli. Una pagina triste del paese che scosse non solo la popolazione locale, ma anche quella nazionale tanto fu il risalto che i media diedero alla notizia. La storia vide poi pian piano emergere dettagli inquietanti: una presunta relazione della sorella (Serena) della dottoressa, moglie del suo assassino (Paolo di Profio), con il figlio del noto boss di Cetraro; le presunte minacce di morte dal carcere di Paolo alla moglie, le intimidazioni ricevute dalla famiglia Giordanelli. 

A distanza di tre anni quella ferita è stata nuovamente toccata. Qualche giorno fa, infatti, è deceduto in carcere l’assassino della dottoressa, nonché suo cognato. Pare si sia trattato di un infarto che non ha dato alcuna possibilità di soccorso.

Non ho voluto condividere su questa pagina le mie riflessioni nell’immediato per non scrivere a caldo, sarei stato troppo impulsivo. Non nascondo, infatti, che, come al solito in queste situazioni, ne ho lette e sentite tante. C’è stato chi ha parlato di Paolo come un buon uomo di cui si è parlato male (quasi) ingiustamente salvo dire che ovviamente il suo gesto è ingiustificabile; chi poi assolutamente lo ha descritto come una bestia, un uomo insensibile, un violento; chi ha partecipato ai funerali come se fosse morto un personaggio pubblico chi, invece, ha ritenuto doveroso non presenziare. Insomma viva la libertà di pensiero!

Onestamente penso che la realtà sia sempre più complessa delle semplici visioni dei singoli, per diversi motivi che vorrei ora qui condividere con voi, seppur brevemente: 

1.        Un omicidio non è un atto grave che riguarda soltanto la vittima, ma la famiglia, il marito, i figli della vittima, gli amici e i conoscenti. Ma non solo, infatti, a soffrire in questi anni son stati anche i genitori di Paolo che hanno dovuto affrontare non solo le conseguenze dell’errore del figlio (vedere un figlio compiere un tale atto non penso che sia piacevole!), ma, forse, anche il peso della vergogna dinanzi a chi si è vista strappare la loro congiunta, il dolore, lo sconforto e lo smarrimento; 

2.        Chi compie un tale atto non è identificato da quell’errore tanto più se si tratta di un solo caso isolato. La vita di Paolo immagino fosse tanto di più. La Chiesa questo lo insegna da quasi due millenni: bisogna distinguere tra peccato e peccatore. Paolo non era un assassino, ma uno che ha compiuto un omicidio chissà per quale motivo reale (anche questo non risulta chiaro agli atti della cronaca). Non sappiamo se si fosse pentito, se in cuor suo portasse la disperazione di un atto che non poteva più essere cancellato. Forse – non ci è dato sapere – il suo cuore non ha retto anche per questo. Forse le cause son state altre.

3.        Infine dovremmo ricordare, soprattutto se battezzati, che il giudizio finale non spetta agli uomini, ma a Dio.


E allora? Come reagire di fronte a questo quadro complesso? Intanto bisognerebbe evitare quelle che a me piace definire “chiacchiere da bar”. Frasi del tipo: “Ha avuto quello che merita” e altre, sono intollerabili. Frasi come: “Poverino in fondo era disperato … lo conosco era un buon uomo, un grande” le ritengo – scusatemi la schiettezza – davvero poco intelligenti. Infatti, rischiano di non rendere giustizia a chi in questa vicenda ha già sofferto tanto oltre che alla stessa dottoressa alla quale è stata tolta la vita. Quando si parla di queste situazioni non si può dimenticare che ci sono vittime di mezzo, gente che ha sofferto e soffre. 

Tuttavia anche frasi come: “Ha avuto quello che si merita” risultano altrettanto fuori luogo. Chi può stabilire fino in fondo cosa meritiamo davvero? Chi ha il potere di leggere fino in fondo all’ultima piega del cuore? Nessuno su questa terra.

E dunque? Quale atteggiamento sarebbe migliore? Probabilmente il silenzio. Un silenzio intelligente, capace di andare a fondo, capace di vedere che, come mi diceva un confratello, all’Addolorata madre della dottoressa, si è aggiunta ora un’altra addolorata, la madre di Paolo. Un silenzio capace di scorgere fino in fondo il dolore che tale vicenda ha provocato. Un silenzio, magari orante per Paolo e Annalisa, come per i figli, per i genitori e per tutti quelli che in questa vicenda son stati coinvolti. Un silenzio che eviti sfilate, protagonismi, discorsi. Quello stesso silenzio che mancò proprio tre anni fa. Perché il silenzio – quando è autentica azione di raccoglimento – diventa grembo fecondo di parole capaci di dare luce, speranza, consolazione. 

Insomma pare che – FORSE – abbiamo sprecato un’ennesima occasione per riflettere … riflettere … per crescere.  Ma è pur sempre vero che non è mai troppo tardi. E allora chissà che questo ultimo atto di questa tragica storia abbia almeno insegnato qualcosa per i giorni a venire. Certo nella speranza – sempre viva – che storie del genere non debbano mai più ripetersi.



Don Giuseppe Fazio
gfazio92@gmail.com











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