venerdì 20 dicembre 2019

SARÀ NATALE ... SE TI AMI UN PO' DI PIÙ


RUBRICA DI ATTUALITÀ


"Pensare fuori dalle Righe"






Da piccoli ci hanno sempre detto che dobbiamo essere migliori. Ci hanno sempre insegnato ad eliminare i difetti, le imperfezioni; ci hanno sempre detto che dovevamo superare i nostri limiti. E tutto ciò – precisiamolo – ce lo dicevano con buone intenzioni.

Crescendo, ho capito che è una grande presa per i fondelli. Certo, bisogna lavorare sulle proprie povertà, bisogna provare a migliorarsi, ma questo non è ciò che conta. La prima cosa che conta è volersi bene. Accettarsi.

Quanto è difficile guardarsi allo specchio e potersi dire con un sorriso che nasce dal cuore: “io mi voglio bene!”
La fregatura sapete qual è? Che se non ti vuoi bene per davvero, difficilmente vorrai bene agli altri.

Il Natale è un po’ la festa che ci invita a volerci bene. Sapete perché? Lo si capisce davanti al presepe. Il Figlio di Dio non va ad abitare in una casa, in un palazzo, ma in una stalla. Non le stalle dei nostri presepi con lampadine, pulite, ordinate. Una stalla vera! Fredda, puzzolente di sterco, magari fatiscente.

Una stalla che somiglia tanto alla mia e, forse, anche alla tua vita: piena di imperfezioni, dei fetori dei nostri egoismi, della freddezza della nostra superbia. Eppure proprio da lì Dio desidera partire.

Potrebbe darsi, allora, che per me e per te, quest’anno festeggiare il Natale voglia dire accettarsi un po’ di più. Smettere di vivere per le aspettative degli altri su te stesso oppure, al contrario, delle aspettative nostre sugli altri.

Sì, forse starai pensando che hai una moglie o un marito acida/o, che hai dei figli scapestrati, forse stai pensando che non hai o non avrai mai dei figli e che non hai neppure una moglie o un marito. Forse stai pensando che ti senti solo, che hai fallito in tante cose e deluso tante persone. Non fa niente. È Natale soprattuttoper te.

Il problema, in fondo, non è che la tua vita non sia un palazzo tutto in ordine, perfetto, pulito ed elegante. Il problema sta nel fare entrare in questa stalla il figlio di Dio.
Oh alla fine pensateci … questa stalla puzzolente è diventata così importante che, a distanza di oltre duemila anni, ancora la rappresentiamo nelle piazze, nelle scuole, nelle chiese e nelle case.

Guarda che può succedere la stessa cosa alla tua vita. Pensa a San Paolo, San Pietro, Sant’Agostino, San Francesco, San Pio … prima di incontrare Gesù Cristo erano delle stalle fatiscenti, dopo … eh … dopo … che vo dico a fa?

E allora ti auguro di vero cuore Buon Natale … ti auguro che finalmente nella stalla del tuo cuore entri sul seriola luce di questo bambino che è venuto a rendere bello ciò che per il mondo è brutto.
Sarà Natale se, amandoti, lascerai a Dio di compiere questo bellissimo miracolo.



Don Giuseppe Fazio
Aldo Maria Cupello



giovedì 19 dicembre 2019

AMANO LA CALABRIA, MA GLI SIAMO INDIFFERENTI

 RUBRICA DI OPINIONE


"Agorà: Piazza di discussione"



La Calabria, come tutto il Meridione, è l’asso nella manica di qualsiasi politico arrivato ai piani alti dei palazzi governativi romani. Se sei in campagna elettorale, infatti, non puoi non citare quanto sia bello il Sud, quanto vada rivalutato, quante bellezze riservi e quanti giovani in gamba formi ogni anno; il Meridione piace, e fa sempre comodo mostrarsi dalla parte di noi “terroni”. E la cosa più brutta è che ci si attacca all’amo anche facilmente, paralizzandoci a bocca aperta e facendoci applaudire al Robin Hood di turno, che casualmente esce dall’ombra qualche mese prima di eventuali elezioni future. E questo, “l’asso Sud”, non fa sconti neanche per le elezioni regionali del 26 gennaio 2020, tant’è che ci ritroviamo - e ritroveremo - senza alcun riscontro positivo. Per l’ennesima volta.
Le votazioni di gennaio, infatti, saranno forse le più confusionarie mai avute; per la Calabria, s’intende. Eh già, perché in regioni come l’Emilia Romagna si sta facendo campagna elettorale da mesi. Sfrecciano auto pubblicitarie come in “L’ora legale”di Ficarra e Picone, volantini nelle cassette della posta, trasmissioni tv, comizi a volontà, i maggiori partiti si sono riuniti a tavolino per presentare un loro candidato e… Noi? Per la punta dello Stivale sembra, invece, che i “giganti” non si siano neanche riuniti al bar del paese, forse avranno accennato qualcosa su WhatsApp, al massimo. Siamo a poco più di un mese di distanza e ancora non si presenta né un centrodestra né un centrosinistra realmente unito (anche se l’ultima sembra aver trovato un equilibrio), ancora non si ha una lista stabile e ufficiale a cui affidarci, bensì dei nomi che vagano un po’ solitari. Al momento troviamo la ricandidatura dell’attuale Presidente della Regione Mario Oliverio, in lista propria sul versante di sinistra. A fargli concorrenza, all’interno della stessa, sono Carlo Tansi(lista propria) e Filippo Callipo(d’altronde, in un periodo in cui emergono le “Sardine” il tonno non può rimanere in disparte) appoggiato dal Partito Democratico. Luigi Di Maio, dipendente ormai da Rousseau, concorre da solo candidando Francesco Aiello. A destra la situazione è più delicata. Prevale un Mario Occhiutoin lista propria, visto il mancato appoggio da parte dei nazionali che sembrerebbero puntare su Jole SantelliSergio Abramo(entrambi con l’ok di FI e appoggiati eventualmente dalla Lega), seguiti dalla candidata targata Meloni Wanda Ferro(FDI). Insomma, la situazione è abbastanza confusa. 
Ciò non può che denotare uno scarso interesse da parte dell’alta classe politica nei confronti della terra calabra, la quale viene mandata ancora più a fondo di quanto non lo sia già. La Calabria è vista solo come terra di mafia, comuni in dissesto, aziende fallite, di vagabondi, di sussidi alla povertà che rasentano la carità oltre che il ridicolo; la Calabria è unicamente patria di una giustizia che fa acqua da tutte le parti, che confonde Codice Civile con Codice Penale, di una sanità che non garantisce neanche un parto; è quella Regione che ogni anno deve avere un “piano di recupero” diverso, ma che finisce sempre negli ultimi cassetti di Palazzo Chigi, quelli impolverati dei quali probabilmente si è persa anche la chiave.
Dunque, evitate di prenderci in giro, evitate di proporre politiche di sviluppo quando non ufficializzate neanche i candidati per guidarle, evitate di interessarvi del Meridione, ma con una data di scadenza, perché la verità è una, una sola: la Calabria non è l’Emilia, come non è la Lombardia o il Piemonte, della Calabria non vi interessa e non vi è mai interessato nulla, se non per meri interessi elettorali. 


Aldo Maria Cupello
 aldocupello6@gmail.com




martedì 17 dicembre 2019

PERCHÉ LA SOLITUDINE MI FA PAURA?


RUBRICA DI ATTUALITÀ


"Pensare fuori dalle Righe"






Abbiamo tutti paura di qualcosa. Chi del buio, chi dell’altezza, chi degli insetti, ecc … ma c’è una paura che ci accomuna un po’ tutti. Una paura che, per lo meno, abbiamo attraversato tutti quanti. Magari c’è chi l’ha superata, chi la sta superando o chi ancora ne è profondamente schiavo … questa è un’altra storia. Resta il fatto che sia una tappa obbligata della nostra esistenza: la paura della solitudine.

Perché la solitudine ci fa così tanta paura? È una paura così radicata che ci siamo ingolfati di “relazioni”: facebook, instagram, WhatsApp, Telegram. Siamo sempre online e, anche quando non lo siamo, abbiamo le cuffiette nelle orecchie. Silenzio e solitudine devono stare fuori dalla nostra quotidianità.

Ma perché? Da un lato la paura dinanzi a qualcosa esprime il fatto che non possiamo tenere tutto sotto controllo. Dice di noi che siamo fragili, frangibili. Che io e te abbiamo paura vuol dire che non siamo invincibili come spesso speriamo. Una paura in fondo manifesta un punto debole e, in un tempo come questo, avere punti deboli è un lusso che non ci si può permettere.

La paura della solitudine, però, è un po’ la panacea di tutte le paure. Se ci pensate, infatti, se hai paura del buio, per esempio, ma sei con un’altra persona quella paura diventa “meno paurosa”. La solitudine è l’espressione del fatto che alla fine ogni paura possa diventare un baratro.

Eppure questo sentimento ha qualcosa di grande da dirci. Una cosa fondamentale, senza la quale non siamo neppure liberi di amare gli altri. Quando, infatti, ho paura della solitudine inizio a cercare altre persone per un mio bisogno, dunque, non in modo libero.
Una relazione iniziata per riempire una solitudine è un fallimento annunciato. La cosa strana sapete qual è? Che più cerchiamo di riempire questa solitudine, più essa si manifesta, fagocita ogni cosa. Sembra davvero un pozzo senza fondo. Per evadere in molti si stordiscono: alcol, droga, sesso, soldi … sono tutti palliativi dettati dalla paura di questa “bella signora”, come la chiama Gianni Morandi, in una sua datata, ma bella canzone. 

Che fregatura. Più ne hai paura, più la solitudine ti si attacca al cuore. E allora, quale soluzione? Dialogarci.
La nostra solitudine ha da dirci qualcosa di estremamente importante: i nostri cuori non possono essere saziati dalle cose e neppure dalle persone che ci stanno intorno. Per quanto puoi avere delle bellissime relazioni, dentro il tuo cuore, in fondo, in quel posto in cui entri la sera quando, stanco di una giornata, sei solo con te stesso, la solitudine rimane.

Nessuno può conoscere alla perfezione i tuoi dubbi, le tue paure, le tue speranze, le tue ferite, i tuoi traumi, i vizi dai quali non riesci ad uscire, le sconfitte che ancora bruciano. Nel tuo cuore, che ti piaccia o no, rimarrà sempre uno spazio di solitudine.
Per questo la solitudine ci fa paura. Sì, ci fa paura perché rimane lì, perché ci ricorda che tutto quanto siamo e abbiamo non ci basta.

Molti per questa paura si sono rovinati l’esistenza, altri, a partire da questa, sono sbocciati. Dove sta la differenza? Come far diventare la solitudine un trampolino? Abbiamo bisogno di non lottare più con lei, di accettarla come pungolo che ci ricorda le cose importanti della nostra vita. 

La solitudine, infatti, deve rimanere lì perché ci deve ricordare che questa terra non ci basta. Questa compagna di strada deve diventare lo spazio nel quale devono echeggiare domande più grandi. E non importa che tu sia ateo, agnostico o fervente cristiano. In questo spazio di solitudine devi imparare a domandarti che senso ha la tua vita, dove stai andando, se sei davvero felice dei tuoi progetti. 

Questa solitudine è una solitudine benedetta perché in qualche modo ricorda al tuo cuore che siamo sazi soltanto quando afferriamo l’eterno. Questa solitudine ci fa paura in fondo perché ci ricorda che non siamo fatti per cose piccole, effimere. Abbiamo bisogno della grandezza di cui soltanto l’Infinito può riempirci.

Sì, la domanda su Dio e sulla nostra esistenza è ancorata proprio a questa solitudine; in questo silenzio esistenziale che, quando realmente abitato, inizia a dare sapore ad ogni cosa. Del resto solo quando accetti di essere solo puoi davvero essere con-solato; cioè puoi finalmente smettere di chiedere agli altri di toglierti la solitudine, per abitarla con te, per condividerla con loro.



Don Giuseppe Fazio
gfazio92@gmail.com





mercoledì 11 dicembre 2019

NEGLI AFFETTI? COME UNA LUMACA

RUBRICA DI ATTUALITÀ


"Pensare fuori dalle Righe"






Nella mia memoria di bambino è rimasto impresso, in modo indelebile, il mio primo incontro con una lumaca. Ricordo che vidi questo piccolo guscio del quale mia madre mi disse che custodiva un altrettanto piccolo animale.
Ero curioso, volevo che uscisse fuori. Ne giorni seguenti resi difficile la vita a molte lumache (intorno a casa se ne trovavano diverse). Le scuotevo, le agitavo, qualcuna la prendevo a calci, ma niente … queste lumache non si decidevano a venir fuori. Mute, senza difendersi, rimanevano soggette alle mie angherie.
Un giorno mi ricordo che ne raccolsi due o tre su un pezzo di polistirolo rimediato nel laboratorio di mio padre e, in preda alla “disperazione”, le misi sotto la fontana. Fu incredibile: dopo pochi istanti, con mia grande sorpresa e forse con non pochi sensi di colpa di chi, per scopo personale, aveva costretto quei piccoli esseri viventi ad abbandonare il loro guscio allagato, le lumache iniziarono a venir fuori dalle loro abitazioni.
In preda all’entusiasmo subito pensai di prendere in mano una delle povere malcapitate per osservarla da vicino. Non feci neppure in tempo ad avvicinarmi che la poveretta si ritirò nuovamente dentro la sua umida casa. 
Provai di nuovo con l’acqua, ma niente. Aspettai qualche minuto ed ecco che timidamente iniziarono a riaffacciarsi. Provai di nuovo ad avvicinarmi, ma il risultato fu il medesimo: un ritirata così veloce da poter smentire la proverbiale lentezza delle lumache. Questo durò diverso tempo. Mi accorsi che più la lumaca era spaventata, più tempo impiegava ad uscire fuori. Ogni qual volta batteva la ritirata il tempo di attesa si prolungava, a volte così tanto che poi mi stancavo abbandonando la lumaca (non posso giurare di non averne ucciso anche qualcuna in preda alla rabbia di quei rifiuti!).

Questo piccolo ricordo mi sembra che dica bene la verità del nostro modo di vivere gli affetti. Di fronte agli altri siamo un po’ tutti nella condizione di queste lumache: c’è chi è più intraprendente, chi meno, ma tutti usciamo allo scoperto soltanto quando ci sentiamo a nostro agio. Quando incontriamo una persona nuova stiamo nel guscio, impariamo a capire se ci si può fidare e, se questa si avvicina troppo, subito rientriamo dentro per paura. A volte capita che, fidandoci, qualcuno ci scuota un po’ di più, ci ferisca, ci faccia del male e allora rientriamo in quel guscio e per uscirne fuori ci vuole sempre di più, perché la paura di essere maltrattati è tanta.

Ammettiamolo: come ci dà fastidio quando gli altri, fossero anche persone a noi care, pretendono che noi usciamo allo scoperto seguendo le loro regole. 
Altre volte ci troviamo nella condizione di chi, spazientito, calpesta, offende, giudica, maltratta. Con quale risultato? Quella lumaca, pur senza parlare o difendersi, non uscirà mai fuori.

In fondo le lumache ci insegnano, con la loro timidezza, il senso del rispetto per gli altri, per i loro tempi, spesso troppo lenti.

Negli affetti, sì, siamo, senza colpa, come le lumache. Si tratta di accettare questa nostra realtà approcciandoci agli altri con il rispetto di chi deve comprendere che tutti siamo felicemente diversi. 

E allora l’arte dell’attesa (tendere verso), che caratterizza il tempo liturgico dell’Avvento che stiamo vivendo, s’incrocia con l’arte dell’aspettare (guardare verso). Dobbiamo tendere verso i gusci degli altri, ma poggiando – in modo rispettoso – gli occhi su d’essi e non su come vorremmo che fossero. Tale atteggiamento ci salverà dal calpestare il guscio altrui e ci restituirà, se saremo capaci di pazientare (soffrire), quello stupore soddisfacente di chi finalmente vedrà lentamente l’altro uscire da se stesso per venirgli incontro. 



Don Giuseppe Fazio
Gfazio92@gmail.com







lunedì 18 novembre 2019

A CAUSA DI POCHI ... BRUCIA LA CIVILTÀ

RUBRICA DI ATTUALITÀ


"Pensare fuori dalle Righe"





Come può bruciare la civiltà? Si potrebbe domandare qualcuno. Beh ... la civiltà brucia ogni qual volta i diritti di qualcuno vengono lesi e, ancor di più, quando vengono lesi con un atto così violento come l'incendio che ha colpito l'auto di Cinzia Antonuccio, Coordinatrice della raccolta rifiuti del comune di Cetraro.

Insieme a quell'auto sì, brucia, ancora una volta e sempre a causa di pochi ignoti, la civiltà di un paese che della civiltà è stata culla per ben otto secoli di storia, grazie al governo dei monaci benedettini.

Mentre esprimiamo solidarietà a Cinzia, così come anche lo abbiamo fatto anche privatamente, ci viene da pensare che tra quei fumi neri dell'auto divelta dalle fiamme ci siano non solo i vari materiali che la componevano, ma una politica nazionale incapace di dare risposte e segni forti, come, invece, forte è stata la scarcerazione del boss Franco Muto, mentre gli altri aderenti alla cosca rimangono dentro; tra quei fumi ci sono senz'altro tanti silenzi, omertà. Forse c'è l'incapacità di tanti cittadini di prendere le distanze da alcuni ambienti, persone, amici e amici di amici.

Nei fumi della civiltà che brucia ci stanno le sofferenze di uomini e donne che subiscono soprusi continuamente; ci sta, forse, anche l'impotenza di tanti uomini onesti che si sentono soli, abbandonati.  In quei fumi ci sta il dolore di chi deve lasciare la propria terra perché se hai vent'anni in Calabria le alternative sono due: o parti oppure, prima o poi, inizi a spacciare per avere un po' di soldi in tasca.

In quei fumi ci sta tanta di quella roba che se a qualcuno dovesse venir la malaugurata voglia di respirarli per davvero, cercando di capire cosa succede, morirebbe seduta stante. 

Ecco ... tra quei fumi - lo auguro a Cinzia e a tutta la mia comunità di Cetraro - spero non si aggiungano queste parole, come le tante che in queste ore rimbalzano su siti, profili dei social, giornali.

Spero vivamente, come ha detto il Sindaco, che la reazione della città sarà forte. E per città - lo sappiamo bene - s'intendono: le forze politiche, le istituzioni religiose, le associazioni e anche e non in secondo piano, i singoli cittadini.

Che sia una reazione forte e visibile!

Mi auguro che questa reazione sia una forte ventata d'aria che possa spazzare questi fumi; fumi di una civiltà che nel frattempo continua a bruciare. 



Don Giuseppe Fazio
gfazio92@gmail.com





mercoledì 6 novembre 2019

IN MEMORIA DI DON IGNAZIO SCHINELLA


 In occasione del secondo anniversario della dipartita di don Ignazio ripresentiamo un vecchio racconto immaginario per offrire un grato ricordo di questo grande sacerdote. 







Cari amici, 



                forse per gli impegni, forse per la stanchezza era da molto che non vi scrivevo dei miei viaggi. 
Proprio oggi mi è toccato di farne uno che mai avrei voluto fare, ma che voglio condividere con voi. Tranquilli questa volta non sono stato ad Ippona o a Bagdad, ma ad Arena un piccolo paese della Calabria. 

Mi sono recato in una piccola strada, sapete quelle di paese, quelle discese ripide che si snodano tra case che raccontano di storie, di volti, di quei personaggi che trovi in ogni paesino che si rispetti. 
In fondo a quella stradina di paese, non cercavo un monumento, una targa o un noto paesaggio, ma una macchina. Sì, quella di don Ignazio.  

Sono rimasto a guardarla per ore.  In quei lunghi istanti ho provato ad immaginare la dinamica dell’incidente, cosa lui abbia potuto provare, come sarebbe potuto andare se ci fosse stato qualche passante. Tanti pensieri, forse, i più inutili. 

Mentre osservavo la macchina, completamente rovinata nella parte anteriore a causa dell’impatto con lampione che si trova proprio al termine di quella stradina, un anziano signore si è fermato accanto a me. Non so quanto tempo sia rimasto fermo a guardarmi, ma, forse per compassione, ad un certo punto ha esordito dicendo: “Un calo glicemico. Pare che a causa di questo abbia perso il controllo dell’auto”. Poi fa una pausa e riprende: “Vede – si volta, guarda dall’altro lato e continua – in fondo a questa strada c’era casa sua. Pochi minuti e sarebbe arrivato. E’ proprio strana la vita!”

Non so perché, ma quelle parole mi hanno gettato ancora di più nello sconforto e, come la benzina che subito s’infiamma quando viene gettata sul fuoco, quei pensieri, quella serie di “ma”, “se” e “però” che si erano appena fermati hanno ripreso a girarmi vorticosamente in testa. 

E’ proprio strana la vita. Guardo ancora la macchina e penso: Forse, caro don Ignazio, ti sarebbe bastato alzarti cinque minuti prima, magari lavarti la faccia più velocemente, o forse evitare di contemplare i paesaggi, come a te piaceva fare, lungo la strada e premere un po’ di più l’acceleratore. Saresti arrivato a casa, avresti mangiato una caramella, ed io ora non sarei qui. Qui a contemplare quello che resta della tua auto e a pensare che è davvero strana la vita. 

A questo punto, preso da molta tristezza, decido di sedermi su quello scalino contro il quale ha urtato, prima dell’impatto che ti è costata la vita, la tua macchina mentre ormai, abbandonata alla ripidità della discesa, continuava la sua mortale corsa. Mi siedo come a prendere un po’ d’aria e nel frattempo contemplo la macchina, mentre su Arena scende la sera. Un tramonto … uno di quelli che tante volte avrai contemplato in questa terra che amavi visceralmente, per la quale ti sei speso e affaticato e che con quanta sofferenza, solo Dio lo sa, avevi lasciato qualche anno fa per dedicarti alla tua passione: l’insegnamento in una terra, quella napoletana, che forse con te è stata un po’ più accogliente di come lo sia stata quella calabrese. 

 E’ strana la vita, mi ripeto quasi con angoscia. Di uomini come te non se ne vede mai la fine, sembra che non debbano mai partire, e quando succede, sembra tutto un sogno, anzi un incubo. Un incubo dal quale la realtà non esita a svegliarti con la sua durezza, come duro è per me guardare queste lamiere divelte. 

Respiro a fatica, riempio i polmoni di aria, mentre gli occhi si gonfiano di lacrime ed una sola domanda rimane nel mio cuore: Perché? Perché una fine così brutta? 

E’ in questo momento che la porta alle mie spalle si apre. Sobbalzo come riportato con i piedi per terra. Istintivamente mi alzo e mi volto verso d’essa. Una signora anziana, una nonnina, mi sorride. Restiamo alcuni istanti in silenzio, insieme guardiamo quella macchina, poi è lei ad interrompere quel silenzio che quasi sembrava eterno: “Era un uomo di Dio e nessuno poteva immaginare una fine così. Un uomo che con il suo sguardo sapeva dare valore alle persone. Non importava chi tu fossi. Un insegnante, un politico, un vescovo o un agricoltore, quando lui ti guardava ti dava dignità”. 

Sorrido. E’ il primo sorriso della serata. Sorrido mentre mi ricordo quando “Ciccio u pacciu” (Ciccio il pazzo), quel buon uomo che sicuramente ora ti avrà accolto in paradiso, si avvicinò da te per dirti un segreto: Gesù e Maria Maddalena erano marito e moglie. Tu lo guardasti con affetto e serietà proprio come se un amico ti stesse confidando un segreto straordinario. E quando lui poi, preoccupato del suo segreto, ti disse di non dirlo a nessuno tu lo rassicurasti sì, con quello sguardo che dava dignità e con un sorriso accogliente dicendogli: “non lo dico a nessuno”. 
Per un attimo mi perdo in quel ricordo. Ma è solo un attimo il tempo che la vecchina riprende a parlare e ritorno con i piedi per terra. 

Continua lei: “Io penso che una brutta fine non sia data dal fatto in sé, ma da come si vive quel fatto”. Inspira, rimane in silenzio, guarda la macchina e poi riprende: “E don Ignazio di sicuro non ha fatto proprio una brutta fine. Perché lui era di animo nobile. Forse non si sarà nemmeno reso conto di quello che stava per succedere, o forse sì, ma sono certa che anche la morte lui l’abbia accolta con dignità. Figlicì (figliolo), io rientro e stai tranquillo che se ben conosco don Ignazio, adesso è in cielo a far casino”.

Adesso sulle labbra e ancor più nel cuore si è fatto prepotentemente spazio un sorriso. Mi immagino lui tra le nuvole correre avanti e indietro dal Signore proponendogli questa idea o quest’altra ancora, come faceva per le sue ricerche o quando aveva un progetto in testa. Rido, scuoto il capo. 

Morire con dignità … ripeto dentro di me questa frase. Quale dignità? Quella di Figli. Lui per molti è stato un grande padre, ma perché in fondo ha vissuto sempre da figlio, Figlio di un Padre che non è solo nei cieli, ma sempre vicino a noi; figlio di una Madre tenerissima, Maria, che ha sempre amato e sentito accanto a sé. 

Morire con dignità … Scrivevi in una raccolta di tue poesie: "Nella speranza attendo il tuo ritorno che mi rompa il velo dagli occhi inginocchiati ad adorarti nel villaggio degli uomini offesi. So che sei con gli esclusi e non mi importa se gli altri mi allontanano dallo stormo degli uomini. Mi basta che m'ami con tutti i miei peccati". E ancora: "Lasciatemi morire nel silenzio. Non voglio sentire il pianto delle donne ... Fatemi consumare dalla mai terra".

Sei stato esaudito. Il silenzio degli amici, della folla che ieri ti ha salutato, dei tanti che si sono raccolti per dire una preghiera o per ricordarti o semplicemente perché sbigottiti, ti ha accompagnato. Quel silenzio che non è assenza di parole, ma è presenza di dignità, di affetto, di riconoscenza. 
Ciao donnignà (tutto attaccato come in tanti ti chiamavamo). Grazie per tutto. E se ora la tristezza mi fa  comporre questa parola “Addio” la speranza me la fa scomporre in “A Dio”. Si, ci vedremo davanti a Dio e come sarà bello! 


Don Giuseppe Fazio









mercoledì 30 ottobre 2019

IN CALABRIA LA SANITÀ È ALLA FRUTTA ... ANZI L'HA GIÀ DIGERITA!

 RUBRICA DI OPINIONE


"Agorà: Piazza di discussione"




Esattamente. In Calabria siamo alla frutta, anzi abbiamo già digerito quasi tutta la coscienza che ci rimaneva. Mi unisco anch’io al gruppo perché credo che tutti noi siamo colpevoli di ciò che è avvenuto, che sta succedendo e che – quasi sicuramente – succederà di nuovo; siamo colpevoli tutti noi che scegliamo l’indifferenza invece che la tagliente e nobile arma della parola, questa ormai passata in secondo piano. Siamo colpevoli quando assistiamo a fatti del genere ed è come se fosse tutto normale perché “tanto siamo in Calabria”. Siamo colpevoli quando assimiliamo questi avvenimenti e ci limitiamo solamente ad un’amarezza momentanea, che passa insieme alle foto e news che scorrono sui social e portali web. 
Eventi come quello presentatosi nelle ultime ore, nell’ospedale civico di Rossano (CS), non possono passare inosservati. Immaginate di avere un malore (fate corna), semplice ma comunque un malore. I consigli del medico di base non bastano più, e si opta per l’ospedale: “sapranno cosa fare”, vi diranno e forse vi direte. Il punto è che non è tanto il “saper fare”, quanto il“come fare”“con che cosa fare”. Arrivate in auto, la parcheggiate ed entrate fiacchi e lenti dall’ingresso principale. Dentro di voi si sviluppa un bagliore di speranza, medici ed infermieri girano ancora nonostante il tardo orario (dovrebbe essere così sempre, dovrebbe…). Vi viene dato un codice azzurro, pazientate in una sedia un po’ unticcia ma siete felici (per quanto lo si possa essere in un ospedale), contenti di aver trovato subito qualcuno che vi abbia dato un’occhiata iniziale. Dopo pochi minuti arriva un’infermiera che vi dice di pazientare un altro po’, quantomeno per avere una barella poiché sono tutte occupate; non bene. Vi risiedete e aspettate ancora, e ancora, e ancora… E’ tarda notte e la situazione non è migliorata, fanno male le gambe e la schiena incomincia a sentire gli acciacchi, a condire il tutto vi è il sonno. Gli infermieri vi liquidano con le stesse risposte, invitando “gentilmente” a pazientare. Non ce la fate più, vi sdraiate a terra. Ebbene sì, vi coricate a terra perché mancano le barelle. Mancano le barelle… 
La foto pubblicata sul “Corriere della Calabria”lascia poche parole. Vedere un malato sul pavimento, rannicchiato e lasciato in un angolino fa piangere il cuore, e dà molta rabbia. Episodi del genere non sono nuovi alla cronaca, tant’è che nell’ospedale di Paola (CS)vi è stato un periodo in cui delle bare passavano tra i pazienti, vista la situazione precaria dell’obitorio (insetti, tubi e fili elettrici che sbucano dal pavimento, incapienza et cetera). Nell’ospedale di Reggio Calabriasi “ingessò” con un pezzo di cartone, e anche le recensioni parlano chiaro (utente x: “Ho messo 1stella solo perché almeno una bisogna metterla per commentare. Non è un ospedale è un campo di battaglia: Prenotazioni al cup mai disponibili, personale che non ha idea di cosa stia facendo e dove si trovi, sgarbatezza ovunque, sporco e condivisioni estremamente precarie in estate tali da creare mancamenti (in molte stanze e nelle sale d’aspetto manca aria condizionata). Medici incompetenti che credono di essere Gesù in terra. Ti salvi e ti prestano attenzione cosa che è un diritto, solo se “conosci”. Ovviamente ci sono rare eccezioni, circa 2% del personale. Il resto non sarebbe in grado nemmeno di riscaldare un uovo”).
L’ultimo caso di mala sanità è proprio quello di Rossano. Fatti del genere fanno emergere, oltre la rabbia, un senso di inadeguatezza, quasi come dire "ma è questa la mia Calabria?". La risposta, duole dirlo, è sì. La Calabria, la Punta dello Stivale, terra della Magna Grecia, di Pitagora, di Cassiodoro, di Telesio e Campanella, non è in grado di garantire pienamente il diritto alla cura. Politici di destra e sinistra, sia a livello nazionale che non, fanno "cucù" con i soliti piani di trita e ritrita per "rilanciare il Sud", "ridare una sana sanità" (anche i giochi di parole ...); a momenti sembra tutto chiaro, lineare e positivo, peccato si tratti appunto di momenti.
La domanda è: avremo mai una Calabria in grado di curare dignitosamente i propri abitanti, senza il rischio di finire come una pallina da ping pong da un ospedale all'altro? E ancora: ci sarà mai l'occasione di riscattare quelle menti giovani e geniali frante da un sistema gestionale arrugginito e a dir poco fatiscente?
Nessuno di noi ha la sfera di cristallo, pertanto mi limito ad invitare tutti quei politici "burloni" a porre uno sguardo sulla loro coscienza, sempre se sia ancora visibile e non annebbiata dalle ormai quotidiane menzogne presentate nelle loro "campagnette" elettorali. Pensateci bene, pensiamoci bene. Quella persona a terra potremmo essere noi, o un nostro caro. Porterebbe rabbia, vero, vedere un nostro parente e/o amico in quelle condizioni?
Bene, quella rabbia va tramutata in qualcosa di produttivo, giusto, diverso, in risposta a tutte le problematiche simili a questo caso. E la prima cosa da fare è abbandonare l'omertà mentale che ci pervade, pensare un po' di più agli altri e imparare a non sottovalutare mai niente, in particolare i campanelli d'allarme come questi. 
Chi ha il potere in mano agisca, chi non lo ha lo faccia usare, naturalmente con cognizione di causa.

Aldo Maria Cupello
aldocupello6@gmail.com



sabato 12 ottobre 2019

SONO MASSONE E CATTOLICO

 RUBRICA DI ATTUALITÀ




"Pensare fuori dalle Righe"



Sono Massone e Cattolico



“Sono Massone e Cattolico”. Non vi preoccupate: non è un coming-out. Si tratta di una frase  che certamente non si sente spesso, in quanto difficilmente un massone si dichiarerebbe così apertamente. Tuttavia è una frase che molti pensano di se stessi. Non è mistero che spesso tanti massoni alla Domenica  siedono in prima fila tra banchi di tante nostre parrocchie.

Che fare allora? Direi che la prima fondamentale operazione è quella dell’informazione. Informare su cosa? Su quello che la Chiesa ha ribadito in tutte le salse: Fede cattolica e Massoneria non sono assolutamente compatibili. 

Coloro che sono iscritti a qualsivoglia loggia massonica si trova in stato di peccato mortalee di scomunica valida ipso factoche non permette la validitàdi azioni come celebrazioni di matrimoni, assumere ruoli come padrino o madrina di battesimo o di cresima.

Perché? La Massoneria in fondo è un’associazione, più o meno segreta, che si occupa di opere di bene – dicono alcuni. Non basta. Non solo perché per essere cattolici non basta fare del bene, ma ancora di più perché un fine buono, a prescindere dalla fede, non fa di una persona una buona persona. E, infatti, è esperienza comune quella di incontrare persone che hanno buoni fini e cattive intenzioni. Si obbietterà: ma la massoneria non ha cattive intenzioni. Ne siete sicuri?

Un’interessantissimo testo dal titolo La Dittatura delle Potenze Occultedi Léon De Poncins spiega con grande chiarezza perché la Massoneria è tutt’altro che qualcosa di benefico. Non voglio soffermarmi sull’aspetto politico (ci sarebbe tanto da dire, soprattutto in Calabria a riguardo della commistione tra Massoneria e ‘Ndrangheta), ma sulla compatibilità con la fede cattolica. 

Intanto è un’organizzazione elitaria ed esclusiva:non chi vuole può entrarne a far parte e non tutti possono godere dei benefici e degli aiuti dei “fratelli massoni”. Già questo dice qualcosa di interessante: solo pochi possono essere iniziati e soltanto se scelti con criteri tutt’altro che ignoti: influenza politico/economica, prestigio sociale, possibilità di favorire, in qualche modo, la propria loggia di appartenenza. Basterebbe questo ad una persona intelligente per capire che con il Vangelo che dichiara tutti fratellinon può esserci alcuna vicinanza.

Ma andiamo avanti …Tra i principi massonici troviamo questo: Considerando le concezioni metafisiche come di dominio esclusivo della valutazione individuale dei suoi membri, essa rifiuta qualunque affermazione dogmatica. Essa ha per insegna: libertà, uguaglianza e fraternità (La Dittatura delle Potenze Occulte, 21).




Proprio questo principio fondamentale mostra in maniera ancora più chiara l’incompatibilità con il cristianesimo che, al contrario, ha i suoi dogmi, i quali non sono fondati sull’autorità di un uomo o di una comunità, ma sulla Rivelazione compiuta in Gesù Cristo.
Per altro: 

a.         Come si può sostenere la libertàse poi si fa giurare, pena la morte, di non parlare delle attività interne alla loggia?
b.        Come perseguire l’uguaglianzase già per entrare a far parte della loggia ci sono criteri di discriminazione sociale notevoli?
c.         Per altro la fraternitàviene riconosciuta soltanto agli iniziati in quanto non si riconosce la paternità di un unico Dio. E come si può essere fratelli se non c’è un Padre comune al quale bisogna prestare ascolto? 

Andiamo ai fini …Quale fine ha la massoneria? 

La massoneria – scrive il famoso massone svizzero Quartier la Tente – si è imposta un compito, una missione: si tratta nientemeno che di ricostruire la società su una base interamente nuova(La Dittatura delle Potenza Occulte, 22)

Una base nuova? A quale “base” si deve sostituire? A quella Cattolica che ha fondato la cultura occidentale. Attenzione a cosa scrivono altri esponenti della Massoneria: 

Pretendere di possedere la verità, formularla in dogmi imperativi, che s’impongono alla fede, corrisponde a un regime che ha fatto il suo tempo … Rinunciamo alle illusioni del passato; coloro che si vantano di avere la verità da una rivelazione divina non sono più in accordo con gli spiriti illuminati della nostra epoca.

Capite? Chi crede in una rivelazione non è in accordo con gli spiriti illuminati. E come si può essere massoni e cattoliciinsieme? Tolta la rivelazione cosa rimane ad una religione? Una semplice cosa: ognuno fa quello che vuole, purchè favorisca i compagni di merenda. Una sorta di relativismo cristiano – non estraneo purtroppo anche a tanti credenti non massoni – che permette di pensare quello che che si vuole di ciò che rimane della fede cattolica.

Dunque, i fratelli massoni quale atteggiamento hanno realmente verso coloro che in realtà vivono la fede cattolica? Lo riposta la prendiamo ancora dal nostro libro nel quale vengono riportate le parole di Vindice a Nubius:

È stato deciso nei nostri consigli che noi non vogliamo più cristiani: non facciamo dunque martiri, ma rendiamo popolare il vizio tra le moltitudini. Che lo respirino coi cinque sensi, che se ne saturino.  Fate cuori viziosi e non avrete più cristiani. Allontanate il prete dal lavoro, dall’altare e dalla virtù: cercate con accortezza di occupare altrimenti i suoi pensieri e le sue opere. È la corruzione in grande che abbiamo intrapreso, al corruzione del popolo da parte del clero e del clero da parte nostra; la corruzione che ci porterà un giorno a seppellire la Chiesa(La Dittatura delle Potenze Occulte, 88)

E quindi che fare? Una caccia alle streghe? No. Semplicemente ricordare le differenze e la nostra identità. Purtroppo è anche vero che spesso nella Massoneria entrano cattolici tiepidi o ignoranti in materia di fede per cui non riescono a capire neppure dove si trovano. Tante altre volte, invece, soprattutto nei primi gradi di iniziazione massonica o in quella che è anche definita Massoneria Azzurra, gli iniziati non vedono tutto ciò che sta dietro alla filantropia proposta e quindi vivono questa realtà senza esserne coscienti fino in fondo.

Per tale ragione occorre, come dicevo, ricordare le differenze, ma anche rimanere aperti al dialogoperché solo il dialogo può convincere il cuore a riprendere la via del vero bene, per lasciare quella falsa ed illusoria seducente pretesa di verità.
Don Giuseppe Fazio
gfazio92@gmail.com