lunedì 3 dicembre 2018

Vendiamo il Vaticano ...

RUBRICA DI ATTUALITÀ
Il mondo interroga la fede.
La fede interroga il mondo.


Non c’è limite all’assurdo. L’ho costatato anche ieri sera mentre facevo zapping per trovare un programma di mio interesse. Invitato da qualche parte, non ricordo dove, Vittorio Sgarbi, critico letterario (del quale non ho mai avuto modo di apprezzare le qualità meritorie in campo) e politico (dicono), ex sottosegretario di stato al Ministero dei Beni Culturali, ha trovato la soluzione per sistemare i migranti che con il nuovo decreto si trovano fuori dai centri di accoglienza. In uno dei suoi soliti deliri afferma: il papa dovrebbe vendere il patrimonio del Vaticano e della Chiesa e accoglierli. Se un critico d’arte e un politico propone di vendere un patrimonio artistico e culturale per risolvere il problema delle povertà (provocata da noi europei, Italia inclusa) e risolvibile diversamente, è piuttosto assurdo. Se questa affermazione venisse espressa pubblicamente come ieri sera nel mio paese (Romania), il signore rischierebbe il linciaggio. E, invece, nello studio nessuno reagisce. Possibile che per il mestiere che svolge, ed essendo italiano, non pensa che quel patrimonio sia degli italiani, il biglietto da visita che attira persone da ogni dove? Possibile che non lo senta anche suo? Possibile che uno chieda che venga venduto il proprio patrimonio artistico e culturale per sistemare (temporaneamente) un problema che (se vogliamo essere proprio “fiscali”) andrebbe risolto in primisda chi lo provoca? Me lo chiedo mettendomi nei suoi panni di critico d’arte e italiano orgoglioso di quanto gli antenati hanno lasciato in eredità. Perché noi cristiani non assolutizziamo mai il valore materiale delle cose. Diceva papa Francesco il 29 novembre: “I beni della Chiesa non hanno un valore assoluto, ma in caso di necessità devono servire al maggior bene dell’essere umano e specialmente al servizio dei poveri.” E non è il primo a dirlo: vendere i calici e i paramenti per sfamare i poveri è previsto della tradizione della Chiesa, lo troviamo negli scritti di Sant’Ambrogio, vescovo di Milano. 
Premesso che la Chiesa da tempo provvede in tante parti del mondo a supplire alle mancanze da parte degli stati (è ciò che in prima persona vediamo da anni nelle missioni in cui siamo volontari): mancanze economiche, sanitarie, educazionali e infine anche spirituali. Ammesso che, vendendo ciò che Sgarbi dice si riesca a sfamare un miliardo di persone (il che è un po’ difficile che possa essere risolutivo), mi domando: veramente è questa la soluzione sensata che può proporre un uomo di cultura nel 2018? Immagino che i geni dell’arte che hanno lasciato questo tesoro alla cultura italiana, ieri sera si siano girati nelle tombe.
 Come abbiamo letto, il papa e i cristiano non hanno alcun problema a farlo, ma da italiana mi chiederei come mai i politici non pensano alle cause di questo disastro economico? Per esempio: forse occorrerebbe iniziare a chiedere ai colossi che vanno a sfruttare i paesi del terzo mondo di non presentare più quei contratti assurdi attraverso i quali non solo ci prendiamo le ricchezze altrui, ma imponiamo che i lavoratori siano sempre i nostri. In questi casi, infatti, non si può assumere personale autoctono che solo in una piccolissima percentuale e solo per i lavori più umili. Da figlia di un ingegnere nel campo del petrolio ne so qualcosa. Li sfruttiamo a sangue e, prima o poi, ne pagheremo il conto. Qui o altrove.
Scrive Curtaz nel suo libro intitolato “L’ultimo sì: un Dio che muore solo come un cane”: “Sapete che i tre uomini più ricchi del mondo hanno un patrimonio personale superiore al prodotto interno lordo dei tre paesi più poveri del mondo? A loro però mai nessuno chiede di vendere nulla. Giusto, se li sono sudati a pico e pala i loro soldi, i poveretti! Sia: vendiamo San Pietro a Bill Gates che la userà per farne il suo attico in Italia. No, non mi convince. Sarà che sono valdostano e dalle mie parti le ottocento cappelle costruite nei villaggi dai nostri bisnonni sono state tirate su dalle braccia e dal sudore di tutti, facendole decorare agli artigiani valsesiani pagati con un piatto di minestra e qualche soldo, e che per loro era il luogo più bello del villaggio, il salotto comune da presentare agli altri, in una gara di bellezza e di arte che partiva dal popolo. Sarà che ancora oggi ogni valdostano considera la cappella come una cosa propria, ma l’idea che dei beni così preziosi che ora sono fruibili da tutti, vadano in mano a pochi, non mi sembra una grande trovata, sinceramente.  Sapete che il sopracitato signor Gates, persona dignitosissima e generosa (metà del suo patrimonio è destinato a una fondazione che porta il suo nome per opere benefiche), ha nel salotto di casa il Codice Leicester di Leonardo da Vinci, da lui acquistato per oltre 30 milioni dollari (la più alta cifra pagata per un libro nella storia) nel 1994? E che potrebbe usarlo come carta igienica in un giorno di euforia? Credo che l’arte sia un bene dell’umanità e che perciò debba essere goduta da tutti, non solo da chi si può permettere di acquistarla. No, mi spiace, facciamo così: teniamo la vendita di San Pietro per ultima. Prima proviamo a versare i soldi che i grandi della terra hanno promesso all’Africa e non hanno mai sganciato, o a diminuire le spese per le armi, o gli stipendi dei super manager che hanno fatto fallire le multinazionali e le banche. Poi ne riparliamo. […] Gesù chiede la condivisione, non l’elemosina. Nella Bibbia la ricchezza è sempre dono di Dio. E la povertà è sempre colpa del ricco.” 
Quando uno presenta un problema, e tu proponi la risoluzione, ma con le braccia degli altri, vuol dire che la questione non ti interessa minimamente. Non ho mai capito questo: se uno parla da cristiano, d’obbligo sarebbe chiedersi per primo cosa egli può fare in merito, e non guardare solo a ciò che possono fare gli altri. Se non parla da cristiano, perché mette di mezzo la Chiesa, di cui non conosce minimamente l’operato, dato che non sa nulla di ciò che la Chiesa da tempo fa già per i poveri?
 Se ognuno pensasse a migliorare la situazione di disagio che gli si presenta, condividendo il poco che ha, il mondo avrebbe un volto diverso. E non ci sarebbe bisogno di sentire idiozie come quelle che un uomo di cultura proponeva ieri sera. Possibile che un paese con un bagaglio così ricco come quello che l’Italia si porta sulle spalle in materia di pensiero e genialità, oggi si ritrovi in una crisi di pensiero, valori e materiale umano così profonda? Noi, gli Altri allora, che siamo “indietro”, non possiamo proprio meravigliarci delle situazioni disastrose che ci troviamo a gestire nelle terre natie, dovremo solo alzare la braccia e arrenderci. E’ triste. Molto triste…


Andreea  Chirches  Leone







sabato 1 dicembre 2018

Sono contento perché mi accontento oppure Mi accontento perché sono contento?

RUBRICA DI ATTUALITÀ
"Pensare fuori dalle Righe"




Dopo una molto lunga pausa estiva, mutatasi poi in autunnale, torniamo a condividere con voi qualche riflessione. Lo stimolo mi è stato suggerito questa volta, non da una notizia di cronaca, dal testo di una canzone o di una poesia, ma dall’essermi reso conto di una sfumatura linguistica che non avevo mai colto, almeno non esplicitamente, prima dell’altro giorno, mentre, come al solito di fretta, mi preparavo per la celebrazione eucaristica. Ovverosia che il verbo “accontentare” contiene la parola “contento”. 
Secondo la Treccanicontentoderiverebbe da contĕntus, part. pass. di continere «contenere», quindi propr. «contenuto; pago di qualche cosa». Con un po’ di fantasia potremmo dire che questo aggettivo significa “essere riempito”. In effetti, se ci si pensa bene, noi siamo felici quando non desideriamo null’altro in aggiunta rispetto a quanto già possediamo. 
Tutti vorremo essere sazi, “riempiti”, ma spesso ci accorgiamo che questa condizione di sazietà è quasi irraggiungibile. Lo “stomaco” della nostra anima è sempre alla ricerca di qualcosa in più. Sorge, dunque, spontanea una domanda: possiamo essere sazi in modo definitivo? Non è forse vero che l’uomo possiede un infinito desiderio di gioia, pace, amore? Siamo, dunque, condannati all’infelicità, almeno su questa terra?

Se mi fermassi a questa prima parola sarei quasi tentato di dire che sì, siamo condannati alla tristezza. Mi viene in aiuto, però, il secondo lemma chiamato in causa in apertura: “accontento”. Se contento è colui che è sazio, colui che accontenta è colui che sazia. Ora questo verbo, lo sappiamo, può essere utilizzato anche in forma riflessiva (accontentarsi). Sappiamo che grandi filosofi – nota l’ironia – come Ligabue hanno espresso idee del tipo “chi si accontenta gode … così così”. 
Eppure questo verbo riflessivo contiene – a mio avviso – una sapienza nascosta. Come ci si può accontentare? Colui che si accontenta è felice perché non vuole altro, è contento, è riempito. Potremmo pensare che si tratti semplicemente dei poco ambiziosi, di quegli stolti che, per pigrizia, non hanno il coraggio di andare oltre se stessi. Potrebbe essere. Ma forse … forse … chi si accontenta ha raggiunto la sapienza di chi non modella la realtà sul proprio stomaco, ma viceversa. 

Chi ha fatto l’esperienza straordinaria di visitare zone di povertà – non per forza fuori dall’Italia – ha probabilmente notato che chi ha niente tende ad essere felice più di chi ha molto. Non ne sono sicuro, ma credo che ciò sia vero perché il povero, colui che riceve tutto, colui che si “accontenta” è capace di dare il giusto valore alle cose, alle persone, alle relazioni. Forse questo indica Gesù quando dice: “Beati i poveri in Spirito”. Sì, chi si accontenta forse è povero, ma è beatus, contento, felice, perché si lascia riempire da ciò che ha, dal quotidiano, da quello che il momento offre, senza, però, vivere una vita mediocre. La differenza, infatti, tra il povero in spirito, tra l’ac-contento ed il mediocre è che quest’ultimo non è felice, in quanto un banale arraffone, superficiale e, probabilmente, anche un superbo. 

In fondo il contento è uno che si accontenta, sì, ma di cosa? Del necessario. Allora forse all’inizio del nuovo anno liturgico cade bene la preghiera che il libro dei Proverbi ci consegna perché ci introduce nella via della felicità:

7Io ti domando due cose,
non negarmele prima che io muoia:
8tieni lontano da me falsità e menzogna,
non darmi né povertà né ricchezza,
ma fammi avere il mio pezzo di pane,
9perché, una volta sazio, io non ti rinneghi
e dica: «Chi è il Signore?»,
oppure, ridotto all'indigenza, non rubi
e abusi del nome del mio Dio. (Proverbi 30,7-9)