mercoledì 23 dicembre 2020

DIMENTICATI DI TE STESSO … E SARÀ UN NATALE MIGLIORE!

RUBRICA DI ATTUALITÀ


"Pensare fuori dalle Righe"





Carissimi,

 

            a poche ore dalla solennità del Natale, come consueto, voglio raggiungervi con queste poche righe per formularvi i miei più affettuosi auguri.

 

È stato un anno molto difficile nel quale siamo stati costretti a ritornare su noi stessi. Lo stare chiusi in casa, senza lavoro, senza gli impegni o gli hobby quotidiani, ci ha costretto a tornare sulle nostre povere vite. Siamo stati catapultati dentro la nostra intimità nella quale, forse, abbiamo trovato tanta luce, ma anche tanto buio.

 

Probabilmente abbiamo speso ore e ore ad analizzarci, a vagliare le nostre relazioni, il nostro stile di vita e con questo avevamo pensato che saremmo state persone migliori, ma alla fine, forse, siamo rimasti delusi. Sì, delusi anzitutto da noi stessi.

 

In un suo interessante scritto dal titolo Il cammino dell’uomo, Martin Buber scrive: All’uomo che non pensa a sé stesso si consegnano tutte le chiavi.

 

È un’affermazione strana che se da un lato rischia di essere banalizzata con un attivismo caritativo che non migliora di certo la condizione dell’uomo, dall’altro sorprende perché fin da bambini ci hanno sempre insegnato che bisogna pensare a sé stessi, al bene che dobbiamo fare e al male che non dovremmo fare, ai nostri progetti, senza guardare agli altri.

 

Eppure, in questa frase è contenuto il senso del Natale. Forse ne sarebbe sorpreso lo stesso Buber in quanto non cristiano, ma filosofo ebreo. Sì, in questa frase c’è il segreto di una buona relazione con Dio che ci è stata consegnata proprio Domenica scorsa nel racconto dell’Annunciazione. 

 

Di Maria, che è la donna più importante di tutta la storia della salvezza, non ci viene raccontato nulla: quali fossero le sue attività quotidiane, i suoi progetti, la sua discendenza, il suo pensiero. Non sappiamo nemmeno cosa stesse facendo quando l’Angelo la raggiunse. Il che è molto strano se pensiamo che sappiamo cosa Zaccaria stesse facendo mentre l’angelo gli annunciò la nascita di suo figlio, se pensiamo al fatto che finanche di Giuseppe sappiamo la discendenza e che era un falegname. 


Di Maria niente … perché di Maria sappiamo la cosa più importante: lei è concentrata non su quello che deve fare, ma su quello che Dio sta facendo per lei. Ed è per questo che quando prorompe nel canto del Magnificat può esclamare: Grandi cose ha fatto per me l’onnipotente!

 

Ecco … Natale, quel Natale che ogni anno, finanche quando imperversa la pandemia, rischiamo di sciupare con le cose da fare, da preparare, impacchettare, è una festa che, per essere vissuta, chiede ad ognuno di dimenticarsi di sé stesso per puntare gli occhi sul Dio con noi. Perché non è importante che noi ci ricordiamo di noi stessi, ma che Dio si ricordi di noi, come il ladrone chiede a Gesù sulla croce (cfr. Lc 23,42). Se Dio, infatti, ci porta nel suo cuore (ri-cordare) allora siamo davvero al sicuro!

 

Non è un caso che ad accogliere per primi il Bambinello siano i pastori che, come unico impegno, hanno quello di vigilare, e i re magi che hanno gli occhi puntati verso il cielo per scrutare, appunto, l’opera di Dio.

 

Il Bambinello conceda a ciascuno di noi questa bellezza: dimenticarci un po’ di noi stessi, del nostro egocentrismo, per aver gli occhi aperti alle meravigliose opere che Dio compie per ciascuno di noi. 

 

La storia ci ricorda, infatti, che gli avvenimenti che hanno per davvero cambiato le sorti dell’uomo sono stati compiuti da persone che si sono lasciate raggiungere dall’opera di Dio. 

 

Da Agostino di Ippona a Francesco d’Assisi, da Madre Teresa a Giovanni Paolo II, fino agli ultimi beati di questi mesi, come Carlo Acutis e l’annunciato Rosario Livatino, la nostra storia è illuminata da grandi smemorati “di se stesi” einnamorati dell’opera di Dio.

 

Buon Natale “smemorato” a tutti voi!




Don Giuseppe Fazio

gfazio92@gmail.com





sabato 12 dicembre 2020

IN SUFFRAGIO DI UN AMICO

Volentieri condivido, come per il giorno dei funerali, le parole che lo Spirito ha ispirato in me in occasione della messa in suffragio di Eugenio. Nella speranza che, come la volta scorsa, possano giovare al cuore di tanti che, pur non potendo essere presenti per ovvi motivi, soffrono per questa prematura dipartita.



Carissimi fratelli e sorelle, 

 

 

         Quando con alcuni ragazzi della banda abbiamo deciso la data di questa celebrazione in suffragio di Eugenio, non avevamo considerato che questa sera saremmo già stati all’interno della celebrazione della domenica della gioia.

 

Mi sono chiesto: Come poter parlare di gioia in un momento in cui ancora il dolore per il distacco prematuro da un nostro amico è così fresco? Certo Eugenio lo ricordiamo tutti per la gioia che trasudava dai suoi sguardi, dalle sue parole, dai suoi atteggiamenti, ma questo non sembra bastare. 

Ho provato tanta fatica a formulare questi pensieri tanto più perché, di fronte a queste letture, la gioia non sembra comparire neppure lontanamente. 

 

Eppure, leggendo e studiando, la figura di Giovanni Battista mi è venuta incontro in una luce che non avevo mai considerato. 

 

Il Vangelo che abbiamo appena ascoltato ci parla di un Giovanni Battista che viene continuamente interrogato sulla sua identità: Tu chi sei? Sei tu il profeta? Chi sei, dunque? E ad ognuna di queste domande il Battista deve rispondere: Non sono io.

 

Ecco … la Liturgia ha un modo strano di parlarci di gioia: lo fa attraverso un uomo che si deve mettere da parte per fare spazio ad un Altro.

 

Pensateci bene: qual è la caratteristica di una persona gioiosa? Qual era la caratteristica di Eugenio? Non mettersi al centro. Nel bene o nel male, chi vive nella gioia sa mettersi da parte in favore degli altri e con questo fa sentire a casa chi gli si avvicina. Sono gli egocentrici ad essere costantemente tristi e scontenti.

 

Quand’è che noi siamo realmente tristi nella nostra quotidianità? Quando non sappiamo mettere da parte le nostre impressioni, le nostre letture dei fatti, i nostri desideri, le nostre apprensioni, nel continuo egocentrismo vogliamo che gli altri ci capiscano, facciano come noi vogliamo e Quando questo poi non succede la tristezza diventa inevitabilmente dilagante! Quando una coppia comincia a non funzionare più? Quando un’amicizia traballa? Quando la fede stessa va in crisi? Quando al centro mettiamo noi stessi e basta.

 

La lotta interna che ci portiamo da sempre dentro non è nel fare o non fare buone azioni, fare o non fare peccati, ma è una lotta tra gioia morte, cioè Tra la capacità di decentrarci e la frenesia di far andare tutto come voglio

 

L’evento della morte di Eugenio sta in questa cornice: nessuno di noi voleva che Eugenio partisse così giovane da questa terra e così facciamo fatica ad accettare il fatto che non sia andata come volevamo, pertanto nel nostro cuore dilagano domande, rabbia, tristezza! Se questo è normale – perché è normale soffrire per la morte - chiede però di essere vissuto, orientato, in un certo modo. Vi prego – anzi direi vi supplico – non buttate via questo dolore, non lo sprecate, non cercate di rimuoverlo! Come come dice una recente canzone, volente o nolente tocca rispondere presente!

 

Come stanno facendo i genitori, il fratello e le sorelle di eugenio che saluto con particolare affetto. Ormai più di una settimana fa sono stato a casa da loro e, parlando con loro, il papà mi ha detto queste parole che vorrei condividere con voi – credo che non si arrabbierà:

 

“Don Giuseppe, mi sono tanto arrabbiato con Dio. Anche perché proprio in questi giorni ho saputo da un mio collega che ha perso il suo nipotino di 4 anni. Mi sono chiesto perché Dio chiami a sé persone così piccole, tenere, giovani. Poi, pregando e meditando, mi è venuta in mente un’immagine: da un albero non tutti i frutti cadono allo stesso momento. Non tutti maturano insieme. Penso che la vita sia così; è solo che noi non sappiamo discernere quando una persona è matura o no per cadere dall’albero, Dio solo lo sa”. 


Beh … se queste fossero le parole di un prete sarebbero forse scontate, ma dette da un uomo che ha appena perso il figlio, hanno un sapore diverso, perché non sono teoria, ma vita vissuta.

 

Io vorrei ringraziare i genitori per questa bella testimonianza di fede, ma tutta la famiglia. È stato bello vedere il giorno delle esequie i fratelli proclamare la Parola di Dio in Chiesa. È un altro modo di vivere un dolore che comunque rimane. E, infatti, ad un certo punto a casa loro, tra una lacrima ed un’altra, abbiamo iniziato a ridere e a scherzare con una naturalezza che sembrava, vista le circostanze, soprannaturale! Tanto che, uscendo da quella casa, mi sentivo un po’ confuso: prima di entrare dentro avevo un peso sullo stomaco notevole, uscendo mi sentivo leggero, consolato, quasi – direi – sereno e gioioso!

 

Sì, carissimi, è possibile parlare di gioia in ogni circostanza come ci ha ricordato la lettera di Paolo appena proclamata. Perché c’è una gioia che non può essere oscurata mai. Quella gioia che Eugenio ha vissuto fino in fondo. 

 

Sì, lui non sapeva mettersi al centro, era sempre decentrato da se stesso, era una persona realmente libera e per questo gioiosa. Anche nella malattia. Una volta mi fece impressione il fatto che, mentre parlavamo della sua situazione, mi scrisse: “adesso basta, se no parliamo sempre di me. Tu come stai?”

 

Quando lo si andava a trovare, anche negli ultimi istanti, la sua preoccupazione è che gli altri non fossero tristi, doveva sorridere e sforzarsi di essere sereno per dare serenità e gioia agli altri. Lui, come Giovanni il Battista, ha ripetuto – forse inconsapevolmente – in ogni istante della sua vita: “Non sono io il centro del mondo, non sono io il Signore della vita”. E così per tanti di noi è stato un piccolo Giovanni il Battista.

 

E, come per il Battista il carcere è stato quel momento in cui la sua vita è maturata e ha dato frutto, così per Eugenio questa lunga e straziante malattia è stato lo stesso! Ma la vita di Eugenio, proprio come quella del Battista, è stata e continua ad essere tanto feconda!

 

Nei giorni che sono intercorsi dal funerale ad oggi sono stato raggiunto da tanti messaggi che mi hanno sorpreso e commosso: ci sono stati ragazzi che mi hanno raccontato che a partire dal funerale di eugenio hanno trovato una pace che cercavano da anni, ragazzi che in questa sofferenza hanno rincontrato, dopo anni, il volto di Gesù, e hanno riiniziato a pregare e ad andare a messa. C’è chi addirittura ha chiesto di poter avere un colloquio per iniziare un cammino spirituale perché ora sente il desiderio bruciante di trovare qualcosa di più solido sul quale poggiare la propria esistenza.

 

Vorrei a questo proposito dire una parola ai ragazzi della banda di Belvedere che oggi hanno chiesto di celebrare questa messa, animandola con gli strumenti tanto cari anche ad Eugenio: Intanto grazie per questa bella occasione di preghiera che ci state donando! È interessante che abbiate sentito il desiderio di ricordare Eugenio in una celebrazione eucaristica. Avreste potuto organizzare – e a me era anche venuto in mente di proporvelo - un concerto in sua memoria (e sarebbe bello farlo), ma avete preferito prima di tutto una messa! In realtà, ve lo dico con affetto, voi, come noi, siamo stati condotti fin qui da Eugenio. È attraverso questo nostro caro amico che il Signore ci ha ricondotti qui per farci una domanda realmente decisiva:

 

Che vita stai vivendo? Che gioia stai cercando? Sei nella gioia o nella quotidiana morte?

 

Sì, è Eugenio che vi ha ricondotto qui, in una chiesa che forse – a volte anche giustamente - vedete così tanto distante dalle vostre vite e per questo non siete abituati a frequentare; vi ha condotto fin qui per consegnarvi nella sua generosità e gratuità un dono prezioso: il segreto della gioia, della sua gioia che è racchiuso in quell’espressione che ho già condiviso il giorno dei funerali: “Ho smesso di chiedermi perché, per iniziare a cercare di capire cosa ho da imparare”, cosa il Signore mi sta dicendo. 

 

Vorrei poteste custodire nel cuore, vorrei poteste fare vostra questa bellezza! Ora, proprio ora che la morte ha decentrato in modo assoluto Eugenio, la sua vita splende davanti ai nostri occhi in una luce della quale forse non ci eravamo mai accorti. Sì, perché Eugenio è entrato nella luce della risurrezione.

 

Cari fratelli e sorelle, come ho detto il giorno dei funerali penso di poter dire che Eugenio ci vorrebbe oggi, più di ieri, gioiosi, di quella gioia decentrante che lui ha sempre masticato e testimoniato fino alla fine. 

 

Alla fine vorrei dire una parola su Santa Lucia, visto che oggi ne è la vigilia. Mi è sempre sembrato strano il modo di rappresentare questa santa: ha in mano i suoi occhi (simbolo del martirio violento che ha subito) eppure sul volto non mancano gli occhi. È come se l'iconografia volesse dire che la violenza le ha strappato un modo umano di guardare la vita e la morte, ma non ha potuto togliere dal suo cuore un modo divino, immortale di guardare ogni cosa.


Ecco ... Il Signore conceda a ciascuno di noi la grazia di poter orientare e vivere il nostro dolore in questo sfondo, in questa luce, con uno sguardo divino. Io dal canto mio sono convinto che la vita di Eugenio avrà da mostrarci ancora tanti frutti e, forse, i migliori ancora li dobbiamo vedere!


Io onestamente spererei di poter vivere, e anche morire, come Eugenio. Tante volte siamo concentrati sul vivere bene, ma bisogna anche morire bene. Eugenio è vissuto bene, ed è anche morto bene. E ora ci attende nella pienezza della vita dove attende di riabbracciarci uno per uno per fare festa per tutta l'eternità!




Don Giuseppe Fazio





mercoledì 2 dicembre 2020

RELAZIONI TOSSICHE? NE VALE LA PENA?


RUBRICA DI LETTERATURA



"Sulle spalle dei giganti"



Smetti di avere conversazioni difficili con persone che non vogliono cambiare.

Smettila di presentarti alle persone che non hanno interesse per la tua presenza. So che il tuo istinto è quello di fare del tuo meglio per essere apprezzata da chi ti circonda, ma è un impulso che ti ruba tempo, energia, salute mentale e fisica. [...] Più rimani coinvolto con persone che ti usano come cuscino, opzione di sfondo o terapista per la loro guarigione emotiva, più a lungo ti allontani dalla comunità che desideri.

Forse se smetti di presentarti, non ti cercheranno. [...] Ciò non significa che tu abbia rovinato la relazione, significa che l'unica cosa che l'ha sostenuta è stata l'energia che solo tu hai dato per mantenerla. 

Questo non è amore, è attaccamento. (Anthony Hopkins)

 



 

Quante volte continuiamo a gridare, spiegare, per provare in tutti i modi a farci sentire, capire, apprezzare, amare? Quanti rapporti portiamo avanti anche se non ci stiamo più dentro? In quante occasioni corriamo a bussare alla stessa porta solo per vedercela sbattuta in faccia?

Quante volte ci illudiamo di vedere una luce in persone che ci offuscano la mente e ci spengono il cuore? E perché tutto questo? Anche se ci affanna, anche se ci distrugge, anche se non ci rende mai felici, perché tutto questo?

 

Sarebbe bello dare una risposta che sia una, semplice e uguale per tutti ma temo che questo non si possa fare perché sono comuni a tutti gli uomini molte dinamiche e molti comportamenti   ma vari e complessi sono i meccanismi e i bisogni dell'animo umano da ricercare nel profondo: a volte si persevera per abitudine, altre per insicurezza, altre ancora per una visione distorta dell'amore o per mancanza di punti fissi o per tanti, innumerevoli altri motivi. Ciò che si può sicuramente dire, però, è che alberga nell'animo di ognuno di noi lo stesso innato, viscerale, disperato bisogno di amore... tanto da vederlo anche dove non c'è.

È proprio in virtù dell'amore che accettiamo i tradimenti, le offese, gli sguardi indifferenti, i torti, i silenzi; è proprio in virtù dell'amore che attiriamo l'odio, la rabbia, la frustrazione e il nulla più totale. E se per caso una mattina ci svegliamo e decidiamo di dire BASTA ecco che alla sera ci assalgono i sensi di colpa, i rimorsi, i "ma", i "forse", i "IL PROBLEMA SONO IO", io che non sono abbastanza paziente, abbastanza buono, abbastanza comprensivo, io che non sono abbastanza qualsiasi cosa che serva a convincermi che è un peccato mortale dire "basta", anche se lo sto gridando, sussurrando o sospirando a qualcosa o qualcuno che mi sta uccidendo. 

 

E, allora, mettiamo per un attimo da parte tutti questi dubbi e iniziamo a porci la domanda delle domande: qual è il vero problema? Il problema sono davvero io? O l'altra persona? E se non lo fossimo nessuno dei due? Forse dovremmo imparare che non è importante capire chi ha sbagliato, quanto ha sbagliato e perché, forse non è importante pensare a quante persone non ci stimano e a cosa facciamo o non facciamo noi per ricevere tanta disapprovazione, forse non è importante ostinarci a pretendere amore da chi amiamo con tutti noi stessi o, al contrario, a sforzarci di amare chi ci ama con tutto se stesso; forse l'importante è saper discernere, saper distinguere l'amore vitale da quello sterile, perché non è un male il nostro bisogno d'amore, il male è ciò che si riceve quando il bisogno si fa così distorto e disperato da scambiare qualsiasi legame, ossessione, abitudine per amore. 

 

Qualche giorno fa ho purtroppo partecipato al funerale di un ragazzo morto a 26 anni che, senza alcuna retorica, ha davvero amato e si è lasciato amare di un amore vitale e per amore vitale intendo quell'amore che rende PIENI, senza avere mai quella sensazione che non sia abbastanza; LIBERI, dai sensi di colpa, dalle frustrazioni, dai rancori, e più di tutto FELICI, perché non ha senso mettere noi stessi in qualcosa che non ci rende felici, perché siamo troppo, davvero troppo preziosi per buttarci in ciò che ci annulla, la nostra vita è troppo preziosa per buttarla in luoghi di morte. Di fronte a quella bara bianca, è questo che ho pensato: ma io, quando arriverò alla fine di tutto, cosa e chi mi porterò dentro e dietro di me?

La morte è un viaggio troppo lungo per poterlo affrontare appesantiti da rapporti difficili o intossicati da relazioni tossiche. 

 

Cosa potrò desiderare, in quel momento, se non soltanto la leggerezza di pochi sorrisi benevoli e di poche braccia confortevoli? In nome di cosa vorrò rivendicare la mia vita se non la verità santa degli amori felici che ho provato e delle relazioni autentiche che ho vissuto? 

Io non voglio aver bisogno di arrivare a quel giorno per dire "basta" , nessuno deve aver bisogno di arrivare a quel giorno per dire "basta". 

Il piccolo principe diceva che "per ogni fine c'è un nuovo inizio", io penso che la nostra vita sia piena di molti inizi che solo alcune fini possono farci scoprire.

 

 


Ramo di Seta







  

venerdì 27 novembre 2020

Eugè, ci rivedremo e sarà bellissimo! A-Dio!

 

Condivido con quanti oggi sono rimasti all'esterno della Chiesa il mio ricordo di Eugenio, nella speranza che possa giovare a quanti ora soffrono per il dolore causato dal distacco fisico.



Al termine di questa celebrazione, in cui abbiamo messo Eugenio nelle mani del Padre Nostro, consentitemi di accostarmi al vostro dolore, ai vostri cuori, e alle vostre vite in punta di piedi. Vorrei condividere con voi alcuni ricordi che mi legano ad Eugenio nella speranza che possano avere su di voi, e in modo particolare sui genitori, sul fratello e sulle sorelle che saluto con particolare commozione, lo stesso effetto che in queste ore stanno avendo nel mio cuore, sussurrando quelli che penso siano alcuni insegnamenti che Eugenio mi ha consegnato e che vorrei lasciare davanti alla porta del santuario dei vostri cuori, lasciando a voi la decisione di farli entrare oppure meno.

 

1.     Il primo ricordo è un ricordo scherzoso. Ad Eugenio piaceva scherzare, era sempre allegro. Ti faceva ridere anche quando era arrabbiato.                                       

Quando sono andato a trovarlo a casa, era appena rientrato dall’ospedale, ho trovato un infermiere – Roberto – che lo stava medicando. Era evidentemente nudo e, non ricordo se Aldo o Roberto stesso, hanno fatto per coprirlo. Lui, invece, vedendomi entrare, prontamente si è scoperto guardandomi con uno sguardo scherzosamente ammiccante, per poi coprirsi. Io, che fino a quel momento non sapevo cosa avrei dovuto dirgli, quali parole erano adeguate al momento, l’ho guardato e spontaneamente gli ho risposto dicendo: “Eugè, puoi stare. Non mi tenti. Ho altri gusti”. Ho pensato: sta così male eppure non perde la voglia di scherzare. Penso che se ora fosse qui direbbe a ciascuno di noi: ridete, ridete sempre perché la vita è bella solo se vissuta con allegria, qualsiasi cosa succeda. Ridete anche mentre soffrite! Proprio come ha fatto lui fino alla fine. Penso che anche oggi vorrebbe vederci ridere, per quanto giustamente difficile.

 

2.     Il secondo ricordo è legato ad una frase che mi disse durante una nostra chiacchierata. Gli chiesi: cosa ti pesa di più, Eugè? E lui: stare fermo, dover accettare che gli altri facciano tutto per me senza che io possa fare niente per loro. Questa espressione mi ha fatto capire il dramma interiore che stava vivendo: non la malattia in sé, bensì accettare di essere amato fino in fondo senza poter fare nulla. Accettare che c’è un momento nella vita in cui si deve rimanere fermi e si deve lasciar fare agli altri. Pensavo: tante volte siamo sempre di fretta, dobbiamo fare fare fare… e invece sarebbe opportuno qualche volta fermarsi e lasciarsi amare. Quando sono tornato da lui dopo una settimana lo avevo trovato in volto, anche se con la febbre, molto più bello. Perché, per qualsiasi malattia, non c’è cura più importante dell’amore di chi ci sta accanto. Sono convinto che se dovesse ora parlare eugenio ci direbbe ancora: amatevi e lasciatevi amare perché il resto passa, l’amore resta.

 

3.     Il terzo ricordo è legato ad una grande virtù di Eugenio: anche se poteva sembrare a primo impatto superficiale, Eugenio era molto riflessivo. E in questa malattia ha riflettuto tanto, ha pregato, ha combattuto con se stesso. Un giorno, Dopo essersi confessato, mi ha detto: se penso a quante cose inutili che fatto, a quanto tempo e a quante energie sprecate per cose superficiali! Ora che il suo tempo si accorciava, sentiva di aver sprecato qualche angolo della sua vita e questo lo faceva soffrire. È la grandezza di un ragazzo che avrebbe avuto tutti i motivi per  pensare solo a se stesso e invece, come sempre ha fatto, continuava a pensare agli altri.
Questa sua bara silenziosa oggi penso gridi a ciascuno di noi la cosa più bella che Eugenio ha sempre vissuto e che ha approfondito nella malattia: “Non perdete tempo, non sciupate la vostra vita in rancori, banalità, superficialità”. Oggi ai nostri cuori, forse appesantiti da tante cose banali potrebbe ripetere, con quel tono di voce suo inconfondibile: e ja lassa stà … 

 

4.     Infine un ultimo ricordo … due suoi messaggi che voglio leggervi – sono sicuro che non si arrabbierà. Il primo è del 29 Giugno - scriveva: “Te l’ho detto voglio ricominciare al più presto, e soprattutto capire non “il perché a me”, ma piuttosto “cosa devo imparare da questo”. 
Il Secondo del 15 Luglio: “voglio continuare a stare con questo mio spirito convinto che sarà solo un passaggio che debba insegnarmi qualcosa di vero e di cui oltre a farne tesoro, deve essere una testimonianza”. Ecco tutti noi ora nel nostro cuore forse stiamo gridando con rabbia a Dio: “Perché?” Vorremo da lui una risposta, una spiegazione. Direi accogliamo la testimonianza di Eugenio che aveva smesso di chiedersi il perché, per passare alla domanda più profonda e più matura del “Signore, cosa hai da dirmi?” “Cosa devo imparare?

 

Caro Eugenio, oggi è il giorno delle lacrime, ma anche il giorno in cui ringraziamo di cuore il Signore per averti donato a noi, per aver fatto incrociare le nostre strade, per averci mostrato nella tua storia e anche nella tua sofferenza, vissuta con un coraggio, una voglia di andare avanti e – direi quasi – un entusiasmo divino che no, la morte non è più forte della vita! 

 

Alla fine, voglio dirti che ogni qual volta guarderò il cielo, immagine del luogo nel quale ora attendi di riabbracciarci tutti, ti penserò e magari, quando sarà pieno di nuvole, di tuoni e di lampi, penserò che è colpa tua … perchè sono convinto che come in terra così in cielo continuerai a fa rivutu con il basso tuba e l’eufonio, con il fragore delle tue risate e con la tua voce squillante, proprio com’eri abituato a fare qui in mezzo a noi. CI rivedremo, Eugenio, e sarà bellissimo … A-Dio, amico mio.



Don Giuseppe Fazio





mercoledì 25 novembre 2020

#Questononèamore /Alcune domande che nessuno si pone.

RUBRICA DI ATTUALITÀ


"Pensare fuori dalle Righe"





Stiamo celebrando la XXI giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne. Una giornata certamente importante a patto che sia una giornata di riflessione profonda, autentica ed intelligente che non si risolva con i soliti slogan, qualche selfie mentre si poggia un mazzo di fiori presso chissà quale simbolo del femminicidio, o qualche frase poetica postata sui propri profili social.

 

Onestamente, quando si celebrano queste giornate, il mio timore, sempre meno latente, è proprio che finisca in questo modo, come si dice dalle nostre parti, “a tarallucci e vino”. Tuttavia, e questo mi sembra importante dirlo, è giusto, durante il corso dell’anno, porre alcuni accenti. Per cui ben vengano queste celebrazioni.

 

Cogliendo la campagna di sensibilizzazione del mio comune di origine (Cetraro) allora vorrei, quindi, cogliere l’occasione per porre qualche domanda di fondo per dare un piccolo, ma forse utile, contributo alla riflessione di quanti avranno la pazienza di leggermi:

 

In primo luogo: com’è possibile che dal 1999, anno in cui viene istituita questa giornata, fino ad oggi, pur parlando in modo sempre più incisivo di “femminicidio” e di violenza sulle donne, i casi sono in continuo aumento?

 

Anche se abbiamo avuto il riconoscimento dei diritti delle donne, è stata (apparentemente) scardinata una mentalità maschilista, il ruolo delle donne è stato rivendicato anche in posizioni di comando e di prestigio, la violenza verso il gentil sesso continua a crescere. Questo mi sembra un dato da attenzionare.

 

Intanto si deve dire che il problema non è la violenza contro le donne, ma la violenza in genere. Settorializzando i tipi di violenza, senza accorgercene, mettiamo in campo delle discriminazioni al contrario inducendo, forse in modo involontario, il pensiero che alcune violenze siano meno gravi di altre. Niente di più falso.

 

In secondo luogo mi domando, e questo afferisce direttamente al problema posto in questione dalla giornata di oggi: è possibile che forse ci sono dei bacini che aumentano e fomentano la violenza sulle donne di cui nessuno prende atto e che, anzi, ciascuno utilizza tal volta con orgoglio, quasi fosse una cosa normale?

 

Mi riferisco, per esempio, alla pornografia. Come molti hanno dimostrato la pornografia è indirizzata principalmente agli uomini (cfr. gli studi della sessuologa atea Therese Hargot o di padre Raimondo Bardelli). Non è un caso che i registi e i produttori di pornografia siano principalmente uomini. Il fine è quello di sollecitare l’istinto ed il piacere e l’immaginazione umano (prevalentemente maschile), indirizzandolo e alterandolo, per trarne profitto. Anche qui è ben risaputo che la macchina della pornografia produce milioni e milioni di euro all’anno.

 

Ora … prendete un bambino che a 10 anni inizia a guardare pornografia (a quell’età sanno già usare internet da almeno quattro anni) e che si abitua ad approcciare la propria sessualità e la sessualità di una donna per trarne piacere incondizionato, metteteci l’incapacità dei genitori di educare alla possibilità di non soddisfare il proprio ego ed una società che sempre più ci dice “se ti piace è giusto che tu lo faccia” e poi domandatevi quale risultato probabilmente verrà fuori.

 

Diciamolo chiaramente: non sto dicendo che la pornografia sia la causa della violenza sulle donne, ma sto dicendo che questa abbia un ruolo principale nell’educazione (o diseducazione!!!) alla concezione della donna. Non si tratta più delle immagini hot a cui la commedia all’italiana ci ha abituato (anche se lì esisteva anche una buona dose di maschilismo). Esistono miglia di siti in cui le donne vengono pagate dagli utenti per sottomettersi ai loro desideri. Ancora una volta la domanda: come un ragazzo si approccerà alla propria fidanzata se per mesi o anni ha pagato ragazze che esaudivano le sue perversioni in modo accomodante? Avrà come metro di riferimento il principe azzurro? Sicuramente no.

 

Aggiungiamo un elemento: la pornografia ha in sé elementi di violenza. Nei film porno, che in quanto film sono evidentemente finzione, non sono presenti carezze, coccole, gesti di tenerezza, ma pura istintualità volta al piacere che chiede, per se stesso, una emulazione. Per altro esistono categorie di porno che inneggiano esplicitamente alla sottomissione.

 

C’è un’altra aggravante poi che spesso viene sottovalutata: dai 10 a 16 anni, non solo termina il processo di formazione della propria identità, ma non ci si rende pienamente conto di quello che si assorbe. Per cui a 20-25 anni ci si può ritrovare con un bagaglio di violenza e di superficialità di cui la prima vittima è la persona in questione. 

 

Chiaro: non trasformiamo il carnefice in vittima, ma se vogliamo andare al fondo delle questioni queste riflessioni sono obbligatorie!

 

Purtroppo, di questo aspetto non ne parlano i politici e le associazioni, troppo poco ne parla la Chiesa e la scuola quando lo fa, lo fa in maniera spesso approssimativa e, talvolta, distruttiva. Perché? Perché purtroppo la pornografia è qualcosa che oggi è ritenuta normale, bella ed utile, magari ad alimentare e colorare la vita sessuale di coppia, ma #questononèamore.

 

Eliminare un problema, come la violenza sulle donne, vuol dire impegnarsi a ricercarne tutte le cause. Bisognerebbe incentivare questa attenzione che certamente richiede studio, sforzo, riflessione, messa in discussione. Senza la ricerca delle cause, infatti, la commemorazione è solo teatro. E di teatranti purtroppo … ce ne sono tanti!

 




Don Giuseppe Fazio

gfazio92@gmail.com







martedì 10 novembre 2020

IL COVID E L’UMANITÀ PERDUTA

RUBRICA DI ATTUALITÀ


"Pensare fuori dalle Righe"





  

Nel periodo del primo lockdown avevamo tutti quanti sperato che la sofferenza generale, dovuta alla limitazione necessaria dell’esercizio della nostra libertà, avrebbe ricondotto ciascuno di noi all’essenziale.

 

Ci avevamo creduto per davvero mentre le immagini di infermieri distrutti, di bare condotte nei cimiteri senza nemmeno una benedizione e delle strade deserte si imprimevano non solo nella nostra memoria, ma soprattutto nei nostri cuori.

 

Eppure, l’immediato “tana libera tutti” avvenuto con la stagione estiva ci ha presto dimostrato che in fondo davvero poco ci ha insegnato questa pandemia. Non solo perché il rispetto basilare delle norme che ci erano state indicate è stato totalmente disatteso ed eluso, salvo poi prendersela con i politici se i casi di contagio sono aumentati nuovamente quando di fatto fino all’altro giorno eravamo tutti abbracciati sui lungomari, nelle piazze o nei locali notturni. 


Ciò che colpisce e ferisce maggiormente è questo clima che, complice un’informazione distorta, va’ costituendosi sempre di più: una sorta di “caccia all’appestato” da stigmatizzare, insultare e finanche colpevolizzare!

 

Che la nostra società non sapesse fare più i conti con la malattia era un fatto ormai evidente da qualche decennio: aborto e eutanasia sono solo due spie di questa chiara malformazione della nostra cultura contemporanea. Tuttavia, avevamo ancora qualche speranza che almeno con i nostri vicini di casa, i nostri amici e conoscenti malati potessimo avere un approccio diverso. E invece no!

 

Qualche giorno fa, prese le dovute precauzioni, mi sono recato a casa di una famiglia della mia parrocchia per dare la benedizione ad una signora deceduta anche per via del covid. Ad essere positiva, stando a contato con la donna contagiata, è risultata successivamente tutta la famiglia. 

Ho avvertito tanto disagio e tanta amarezza ascoltando le parole del figlio che, a distanza, mi diceva parole simili: “non solo abbiamo perso nostra madre, ma dobbiamo sopportare anche il peso di tante parole come se essere malati fosse una colpa da scontare!”

 

Avrei voluto abbracciare quel ragazzo, ma purtroppo non sono ai livelli di San Francesco d’Assisi che baciava i lebbrosi. Avrei voluto abbracciarlo e dirgli che la tragedia più grande non è affatto il Covid, no! Di fatto per quanto pericolosa sia questa pandemia, la morte attende ciascuno di noi, in un modo o in un altro.


La pandemia più pericolosa è la perdita dell’umanità che, sempre più velocemente, dilaga nel cuore di ciascuno di noi, probabilmente anche in quello dello scrivente. Il Covid non è altro che uno specchio nel quale questa realtà ci viene mostrata in tutta la sua durezza! Avremmo dovuto imparare da questa pandemia che da soli non bastiamo a noi stessi, avremmo dovuto riscoprire la bellezza della compassione (soffrire insieme), della solidarietà, dell’amicizia e invece … ci riscopriamo sempre più egoisti. 

 

Chissà se un giorno capiremo … Chissà …





Don Giuseppe Fazio

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