lunedì 3 dicembre 2018

Vendiamo il Vaticano ...

RUBRICA DI ATTUALITÀ
Il mondo interroga la fede.
La fede interroga il mondo.


Non c’è limite all’assurdo. L’ho costatato anche ieri sera mentre facevo zapping per trovare un programma di mio interesse. Invitato da qualche parte, non ricordo dove, Vittorio Sgarbi, critico letterario (del quale non ho mai avuto modo di apprezzare le qualità meritorie in campo) e politico (dicono), ex sottosegretario di stato al Ministero dei Beni Culturali, ha trovato la soluzione per sistemare i migranti che con il nuovo decreto si trovano fuori dai centri di accoglienza. In uno dei suoi soliti deliri afferma: il papa dovrebbe vendere il patrimonio del Vaticano e della Chiesa e accoglierli. Se un critico d’arte e un politico propone di vendere un patrimonio artistico e culturale per risolvere il problema delle povertà (provocata da noi europei, Italia inclusa) e risolvibile diversamente, è piuttosto assurdo. Se questa affermazione venisse espressa pubblicamente come ieri sera nel mio paese (Romania), il signore rischierebbe il linciaggio. E, invece, nello studio nessuno reagisce. Possibile che per il mestiere che svolge, ed essendo italiano, non pensa che quel patrimonio sia degli italiani, il biglietto da visita che attira persone da ogni dove? Possibile che non lo senta anche suo? Possibile che uno chieda che venga venduto il proprio patrimonio artistico e culturale per sistemare (temporaneamente) un problema che (se vogliamo essere proprio “fiscali”) andrebbe risolto in primisda chi lo provoca? Me lo chiedo mettendomi nei suoi panni di critico d’arte e italiano orgoglioso di quanto gli antenati hanno lasciato in eredità. Perché noi cristiani non assolutizziamo mai il valore materiale delle cose. Diceva papa Francesco il 29 novembre: “I beni della Chiesa non hanno un valore assoluto, ma in caso di necessità devono servire al maggior bene dell’essere umano e specialmente al servizio dei poveri.” E non è il primo a dirlo: vendere i calici e i paramenti per sfamare i poveri è previsto della tradizione della Chiesa, lo troviamo negli scritti di Sant’Ambrogio, vescovo di Milano. 
Premesso che la Chiesa da tempo provvede in tante parti del mondo a supplire alle mancanze da parte degli stati (è ciò che in prima persona vediamo da anni nelle missioni in cui siamo volontari): mancanze economiche, sanitarie, educazionali e infine anche spirituali. Ammesso che, vendendo ciò che Sgarbi dice si riesca a sfamare un miliardo di persone (il che è un po’ difficile che possa essere risolutivo), mi domando: veramente è questa la soluzione sensata che può proporre un uomo di cultura nel 2018? Immagino che i geni dell’arte che hanno lasciato questo tesoro alla cultura italiana, ieri sera si siano girati nelle tombe.
 Come abbiamo letto, il papa e i cristiano non hanno alcun problema a farlo, ma da italiana mi chiederei come mai i politici non pensano alle cause di questo disastro economico? Per esempio: forse occorrerebbe iniziare a chiedere ai colossi che vanno a sfruttare i paesi del terzo mondo di non presentare più quei contratti assurdi attraverso i quali non solo ci prendiamo le ricchezze altrui, ma imponiamo che i lavoratori siano sempre i nostri. In questi casi, infatti, non si può assumere personale autoctono che solo in una piccolissima percentuale e solo per i lavori più umili. Da figlia di un ingegnere nel campo del petrolio ne so qualcosa. Li sfruttiamo a sangue e, prima o poi, ne pagheremo il conto. Qui o altrove.
Scrive Curtaz nel suo libro intitolato “L’ultimo sì: un Dio che muore solo come un cane”: “Sapete che i tre uomini più ricchi del mondo hanno un patrimonio personale superiore al prodotto interno lordo dei tre paesi più poveri del mondo? A loro però mai nessuno chiede di vendere nulla. Giusto, se li sono sudati a pico e pala i loro soldi, i poveretti! Sia: vendiamo San Pietro a Bill Gates che la userà per farne il suo attico in Italia. No, non mi convince. Sarà che sono valdostano e dalle mie parti le ottocento cappelle costruite nei villaggi dai nostri bisnonni sono state tirate su dalle braccia e dal sudore di tutti, facendole decorare agli artigiani valsesiani pagati con un piatto di minestra e qualche soldo, e che per loro era il luogo più bello del villaggio, il salotto comune da presentare agli altri, in una gara di bellezza e di arte che partiva dal popolo. Sarà che ancora oggi ogni valdostano considera la cappella come una cosa propria, ma l’idea che dei beni così preziosi che ora sono fruibili da tutti, vadano in mano a pochi, non mi sembra una grande trovata, sinceramente.  Sapete che il sopracitato signor Gates, persona dignitosissima e generosa (metà del suo patrimonio è destinato a una fondazione che porta il suo nome per opere benefiche), ha nel salotto di casa il Codice Leicester di Leonardo da Vinci, da lui acquistato per oltre 30 milioni dollari (la più alta cifra pagata per un libro nella storia) nel 1994? E che potrebbe usarlo come carta igienica in un giorno di euforia? Credo che l’arte sia un bene dell’umanità e che perciò debba essere goduta da tutti, non solo da chi si può permettere di acquistarla. No, mi spiace, facciamo così: teniamo la vendita di San Pietro per ultima. Prima proviamo a versare i soldi che i grandi della terra hanno promesso all’Africa e non hanno mai sganciato, o a diminuire le spese per le armi, o gli stipendi dei super manager che hanno fatto fallire le multinazionali e le banche. Poi ne riparliamo. […] Gesù chiede la condivisione, non l’elemosina. Nella Bibbia la ricchezza è sempre dono di Dio. E la povertà è sempre colpa del ricco.” 
Quando uno presenta un problema, e tu proponi la risoluzione, ma con le braccia degli altri, vuol dire che la questione non ti interessa minimamente. Non ho mai capito questo: se uno parla da cristiano, d’obbligo sarebbe chiedersi per primo cosa egli può fare in merito, e non guardare solo a ciò che possono fare gli altri. Se non parla da cristiano, perché mette di mezzo la Chiesa, di cui non conosce minimamente l’operato, dato che non sa nulla di ciò che la Chiesa da tempo fa già per i poveri?
 Se ognuno pensasse a migliorare la situazione di disagio che gli si presenta, condividendo il poco che ha, il mondo avrebbe un volto diverso. E non ci sarebbe bisogno di sentire idiozie come quelle che un uomo di cultura proponeva ieri sera. Possibile che un paese con un bagaglio così ricco come quello che l’Italia si porta sulle spalle in materia di pensiero e genialità, oggi si ritrovi in una crisi di pensiero, valori e materiale umano così profonda? Noi, gli Altri allora, che siamo “indietro”, non possiamo proprio meravigliarci delle situazioni disastrose che ci troviamo a gestire nelle terre natie, dovremo solo alzare la braccia e arrenderci. E’ triste. Molto triste…


Andreea  Chirches  Leone







sabato 1 dicembre 2018

Sono contento perché mi accontento oppure Mi accontento perché sono contento?

RUBRICA DI ATTUALITÀ
"Pensare fuori dalle Righe"




Dopo una molto lunga pausa estiva, mutatasi poi in autunnale, torniamo a condividere con voi qualche riflessione. Lo stimolo mi è stato suggerito questa volta, non da una notizia di cronaca, dal testo di una canzone o di una poesia, ma dall’essermi reso conto di una sfumatura linguistica che non avevo mai colto, almeno non esplicitamente, prima dell’altro giorno, mentre, come al solito di fretta, mi preparavo per la celebrazione eucaristica. Ovverosia che il verbo “accontentare” contiene la parola “contento”. 
Secondo la Treccanicontentoderiverebbe da contĕntus, part. pass. di continere «contenere», quindi propr. «contenuto; pago di qualche cosa». Con un po’ di fantasia potremmo dire che questo aggettivo significa “essere riempito”. In effetti, se ci si pensa bene, noi siamo felici quando non desideriamo null’altro in aggiunta rispetto a quanto già possediamo. 
Tutti vorremo essere sazi, “riempiti”, ma spesso ci accorgiamo che questa condizione di sazietà è quasi irraggiungibile. Lo “stomaco” della nostra anima è sempre alla ricerca di qualcosa in più. Sorge, dunque, spontanea una domanda: possiamo essere sazi in modo definitivo? Non è forse vero che l’uomo possiede un infinito desiderio di gioia, pace, amore? Siamo, dunque, condannati all’infelicità, almeno su questa terra?

Se mi fermassi a questa prima parola sarei quasi tentato di dire che sì, siamo condannati alla tristezza. Mi viene in aiuto, però, il secondo lemma chiamato in causa in apertura: “accontento”. Se contento è colui che è sazio, colui che accontenta è colui che sazia. Ora questo verbo, lo sappiamo, può essere utilizzato anche in forma riflessiva (accontentarsi). Sappiamo che grandi filosofi – nota l’ironia – come Ligabue hanno espresso idee del tipo “chi si accontenta gode … così così”. 
Eppure questo verbo riflessivo contiene – a mio avviso – una sapienza nascosta. Come ci si può accontentare? Colui che si accontenta è felice perché non vuole altro, è contento, è riempito. Potremmo pensare che si tratti semplicemente dei poco ambiziosi, di quegli stolti che, per pigrizia, non hanno il coraggio di andare oltre se stessi. Potrebbe essere. Ma forse … forse … chi si accontenta ha raggiunto la sapienza di chi non modella la realtà sul proprio stomaco, ma viceversa. 

Chi ha fatto l’esperienza straordinaria di visitare zone di povertà – non per forza fuori dall’Italia – ha probabilmente notato che chi ha niente tende ad essere felice più di chi ha molto. Non ne sono sicuro, ma credo che ciò sia vero perché il povero, colui che riceve tutto, colui che si “accontenta” è capace di dare il giusto valore alle cose, alle persone, alle relazioni. Forse questo indica Gesù quando dice: “Beati i poveri in Spirito”. Sì, chi si accontenta forse è povero, ma è beatus, contento, felice, perché si lascia riempire da ciò che ha, dal quotidiano, da quello che il momento offre, senza, però, vivere una vita mediocre. La differenza, infatti, tra il povero in spirito, tra l’ac-contento ed il mediocre è che quest’ultimo non è felice, in quanto un banale arraffone, superficiale e, probabilmente, anche un superbo. 

In fondo il contento è uno che si accontenta, sì, ma di cosa? Del necessario. Allora forse all’inizio del nuovo anno liturgico cade bene la preghiera che il libro dei Proverbi ci consegna perché ci introduce nella via della felicità:

7Io ti domando due cose,
non negarmele prima che io muoia:
8tieni lontano da me falsità e menzogna,
non darmi né povertà né ricchezza,
ma fammi avere il mio pezzo di pane,
9perché, una volta sazio, io non ti rinneghi
e dica: «Chi è il Signore?»,
oppure, ridotto all'indigenza, non rubi
e abusi del nome del mio Dio. (Proverbi 30,7-9)




venerdì 21 settembre 2018

CROCIFISSI SUL MARCIAPIEDE

RUBRICA "IL MONDO INTERROGA LA FEDE- LA FEDE INTERROGA IL MONDO"




Una sera verso la fine di luglio Padre Bogdan ci chiama per andare a preparare il cibo per i senzatetto nella “Città della Carità”. Mi dice che lo porterà poi in strada insieme ad un gruppo di giovani che vengono a posta da lontano. Siamo felicissimi lo stesso, meglio così, come in tutte le cose ci vuole la gradualità. Non so preparare la minestra rumena di cui mi parlava, me l’ha sempre preparata mamma. Ma non conta, ci saranno altri volontari e imparerò lì. Desidero conoscere questa realtà da sempre e non posso mettere davanti i miei limiti proprio ora. Guardiamo fuori dal finestrino della macchina i contrasti che si mostrano così forti, e sia io che Adelmo abbiamo un nodo in gola. Attraversiamo i quartieri malfamati di Bucarest. Questa zona che mostra forti disagi convive silenziosamente accanto alle altre, bellissime, che frequentiamo abitualmente. Fa male questo passaggio così repentino da una realtà a questa che conoscevamo solo per sentito dire. Dopo circa quaranta minuti arriviamo nel convento di Padre Bogdan. Con uno spirito molto pratico ci fa strada in cucina e ci mostra il da fare dopo averci presentato altri due volontari del posto. Il convento sembra un piccolo palazzo comunista; i frati vivono in maniera molto rudimentale, di elemosina. E’ tutto organizzato per l’assistenza dei più poveri. A Bucarest ce ne sono tanti, ci dice; qualcuno lo incontriamo pure noi rannicchiato su qualche panchina nei parchi, o sui cartoni agli angoli dei palazzi o delle strade. Questione di attimi perché in genere voltiamo subito la testa dall’altra parte. Non solo per evitare l’imbarazzo, ma anche perché vedere il loro disagio provoca una rivoluzione interiore, mette in crisi, una sofferenza che così allontaniamo subito. Come lo struzzo che affonda la testa nella sabbia per far scomparire il senso di pericolo.
Ritorniamo qualche sera dopo. Padre Bogdan ci dice che ora a preparare la minestra di pollo saremo solo noi. Faccio fede sulla memoria di Adelmo che ricorda bene i passi, ma per non sbagliare confronto qualche ricetta in rete. Desidero tanto che mangino del buon cibo, anche se per sfortuna loro stasera tocca a due apprendisti. E’ bella l’atmosfera lì dentro, un po’ come se quel perimetro fosse sacro, un mondo diverso dal nostro. Oltrepassi il cancello e smetti di essere ciò che sei, è come se ti spogliassi di tutto per diventare simile a coloro che incontrerai. Un mondo in cui non si bada a se stessi ma agli altri, a servire gli ultimi; un mondo in cui i problemi personali diventano piccoli se non scompaiono del tutto, e tutto ciò che lo mette in moto è il bene dell’altro. Terra santa. Oppure santificata. Tutto scorre bene e la pentola è pronta. Insieme a Padre Bogdan prepariamo le casseruole. Ne sono uscite fuori una sessantina. Ci chiede se vogliamo mangiare qualcosa. L’emozione che ci abita ha chiuso l’appetito. Chiedo a Bogdan di prendere lui un po’ di minestra dato che faremo tardi. Declina, preferisce lasciare tutto per i poveri. Vive per loro. Lo vedo nella cura e nell’amore con le quali pensa a tutto nonostante lo facesse da anni. Prendiamo anche i pani che spezzeremo per strada, carichiamo il tutto in macchina e ci avviamo verso la Stazione Centrale, Gara de Nord. Lungo il tragitto Bogdan ci prepara un po’ raccontandoci ciò che a breve vedremo. Le storie quotidiane di quelle tante persone delle quali lui conosce tutto: vissuto, abitudini, ritmi, nomi. Ci parla dei bambini che vivono nei canali, di coloro che si iniettano con il veleno per i topi, per non sentire più fame, per dimenticare di vivere, delle associazioni che portano loro non cibo ma aghi sterili, per cercare di limitare così la diffusione dell’AIDS e dell’epatite. "Potrebbero esserci anche le prostitute, ci dice. Qualcuno mormora che portiamo loro del cibo. Ma noi non siamo qui per giudicare. Siamo qui per aiutare tutti, per chiunque ha fame." Parcheggiamo e ci incamminiamo a piedi per la zona della stazione. Appena poggiate per terra le borse, escono da tutte le parti. Volti allegri, volti sui quali si legge la disperazione, mani tese, voci che chiedevano… tutto si mescolava così velocemente… Qualcuno che ha avuto la fortuna di mangiare qualcosa durante il giorno lascia il pasto a chi è più affamato. Alcuni volti sono rimasti impressi. La signora seduta sul muretto con lo sguardo perso, in evidente stato depressivo che non vuole mangiare. Come altri dei quali ci raccontava Bogdan, vorrebbe morire e presto. La ragazzina che ripeteva “Per mia mamma! La prego, per mia mamma!” preoccupata che non ci sarebbe rimasta una porzione per lei. Il giovane disabile che appena ci ha visti arrivare ha fatto festa saltellando e strofinandosi le mani in attesa di prendere la sua minestra. Il coro che chiedeva a Bogdan: “Ma domani verrai? Vieni anche domani!” Bogdan fa un cenno positivo con la testa, non dice di sì. Non sa di certo se verrà. Dipende dalla Provvidenza. Se ci saranno volontari e se qualcuno porterà qualcosa per poter cucinare. Ma la Provvidenza, dice Lui, non manca mai. E infine lui, l’anziano sdraiato a terra su un cartone dietro la pensilina della fermata del bus, sulla strada principale. Sul cemento ancora bollente che rilascia tutto il calore della torrida giornata di agosto. Ha gli occhi lucidi, la voce spenta e una tosse catarrale. Un piede è mangiato dai topi perché la sera prima un altro senzatetto si è rubato le sue scarpe. Se con gli altri ero riuscita a sorridere o scherzare, di fronte a lui mi sforzo per non piangere. Anche le disgrazie hanno il loro “troppo”. Cristo crocifisso su un marciapiede. Silenzioso e conciliato come il Cristo sul Golgota. Finiti i sessanta pasti dobbiamo rientrare. Sul tragitto verso casa, come non mai, restiamo in silenzio. Ogni fine giornata di questi due mesi e mezzo che viviamo qui, è segnato dalla condivisone delle varie esperienze che il Signore ci concede di vivere: ciò che ci ha segnato, ciò che è andato bene. O male. Ciò che rifaremo allo stesso modo. O con spirito diverso. Questa volta sia io che Adelmo abbiamo sentito la necessità del silenzio.
E’ martedì, giorno in cui gli amici della strada si recano presso il convento per il pranzo, per la doccia settimanale, per il taglio dei cappelli, il cambio dei vestiti e per i medicinali. Arriviamo presto ma qualcuno è già lì. Si sentono a casa, come chiunque oltrepassa quel cancello. I volontari sono già a buon punto, restano piccole cose da fare. Con Adelmo serviamo ai tavoli. Sono circa un centinaio. Qualcuno lo conosciamo già, e mentre mangiano abbiamo modo di conoscere altri, di parlare, anche di ridere. Per loro è giorno di festa. C’è chi è più animato, mentre altri stanno in silenzio e scelgono posti più appartati. Sono coloro che vivono con disagio e molta difficoltà la propria condizione. Alcuni con vergogna. Altri con rabbia. Mentre salgo nella stanza nella quale si sono messi in fila per le docce, una signora anziana di etnia rrom mi ferma e mi dona la benedizione del Signore augurandomi vita lunga nella quale però, dice lei, dovrò fare spesso questo. Ringrazio e sorrido anche con il cuore, perché questo sì che è un bell’augurio. Padre Bogdan mi chiede di sistemare i vestiti e di aiutarli a trovarsi un cambio. Accanto a me un frate taglia loro i capelli e la barba. Lo fa con pazienza e attenzione, come un parrucchiere che non vuole perdere i clienti. Parla con loro e chiede sempre se il taglio è gradito. Che bello vedere persone capaci di trattare tutti allo stesso modo, di avere riverenza per i più poveri così come per i potenti… Uno di loro si offre ad aiutarmi a piegare i panni, e dopo un po’ un altro fa la stessa cosa. Si mettono all’opera di spontanea volontà e lo fanno con entusiasmo nonostante il caldo che si sente sempre più forte, quasi dispiaciuti quando abbiamo finito. Tra di loro c’è anche qualche ex carcerato, persone con un vissuto forte, con una vita che in teoria li ha inaspriti togliendo loro la tenerezza. Nonostante ciò sono capaci di gesti di affetto, sorridono, ringraziano. Alla fine della mattinata un ragazzo molto esile e con una leggera disabilità si avvicina e mi dice scandendo le parole con un tono molto deciso e fiero: “Sappi che se avrai bisogno di me io ci sarò! Basta che chiedi di me ed io ci sarò!
“E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo.” Non ho mai compreso quanto ora le parole di Francesco. E’ questa la Bucarest che portiamo nel cuore. E’ fatta di volti come quello di Bogdan e dei suoi frati, dei volontari, di coloro che non hanno niente se non Dio. E dei tanti crocifissi del nostro tempo verso i quali basta stendere la mano per sentire le piaghe. E di un Dio che si fa presente anche così, in un sorriso, in una parola, in un piatto di minestra calda.




Andreea Chiriches Leone





sabato 1 settembre 2018

NE ABBIAMO LE TASCHE PIENE ...


Rubrica di Attualità: Pensare fuori dalle righe.




Mi scuserete se questa volta il mio s-ragionare urterà la vostra sensibilità non per i contenuti, ma per la banalità del discorso. Se leggendomi vi sentirete urtati per le ovvietà che sto per elencare, abbiate pazienza, mi sento così confuso. 

Partiamo dalle parole che sono mesi che sento dire: “Questi qui (i nostri fratelli immigrati) li accolga la Chiesa se proprio ci tiene all’accoglienza”. Che queste parole siano frutto di ignoranza e di superficialità basterebbe poco per dimostrarlo. Per esempio si potrebbero contare le cooperative nate in seno alle parrocchie o alle associazioni cattoliche per mostrare che l’accoglienza la Chiesa non la fa a parole, ma la vive. Si potrebbe vedere il lavoro svolto dalla Caritas (nazionale e diocesana) negli ultimi anni e non solo economicamente, ma anche e soprattutto umanamente, ma andiamo oltre …

È di questi giorni la notizia che la Conferenza Episcopale Italiana ha deciso di accogliere 100 immigrati che sono stati sistemati, proprio in queste ore, presso una struttura della stessa conferenza sita in Rocca di Papa. All’arrivo degli ospiti sembrava di vedere una scena dell’esodo: Un mare di persone diviso a destra e a sinistra, mentre in mezzo transitavano i due pullman. 
Da un lato degli uomini e delle donne che, come me, ritengono ovvio dare il benvenuto a persone che hanno sofferto l’inimmaginabile. Ho ancora impressi negli occhi i volti di alcuni immigrati minorenni che, qualche settimana fa, ho potuto incontrare insieme ai ragazzi scout del clan con il quale ho condiviso la strada quest’anno. Sono dell’idea che alcune cose un conto è sentirle in televisione, altro è sentirsele raccontare dai diretti interessati, incrociando i loro sguardi segnati dalla sofferenza, ma non inquinati dall’odio; quell’odio che, invece, tante volte gratuitamente dispensiamo noi. 
Dall’altro lato – scusatemi il francese – una manica di ignoranti neo fascisti. Ora qui il punto non è: accoglienza sì, accoglienza no. Non si tratta nemmeno del diritto di dissentire pubblicamente, il quale è sancito e garantito dalla nostra costituzione. 

La questione è un’altra. Sto per consegnarvi una grande perla di saggezza frutto di tante riflessioni e di tanto studio: a casa mia faccio entrare chi voglio. 
Eh si … e va bene fin quando: “con i soldi comuni prima gli italiani” (tolleriamo l’ignoranza di chi non sa che con quei famosi soldi per gli immigrati abbiamo salvato piccoli hotel destinati a chiudere, abbiamo assunto giovani psicologi, assistenti sociali, operatori, e altri professionisti che diversamente a quest’ora sarebbero ancora disoccupati); può essere comprensibile anche: “ho paura perché poi se vivono in mezzo alla strada chissà che vita fanno e che combinano” (anche qui tolleriamo l’ignoranza di chi non si rende conto che i reati peggiori li combinano gli italiani, ma di quelli non si deve avere paura, anzi meglio se sono amici così mi fanno qualche favore). Il punto è che qui si arriva a dire alla C.E.I. che non deve accogliere nelle sue strutture degli immigrati. Questo mi pare un po’ troppo! 

Come mi pare troppo e troppo evidente l’odio che sta generando questa politica cieca e populista. Gruppi estremisti che alzano la testa, che inneggiano “alla propria razza”. Il clima mi sembra proprio quello studiato sui libri di storia, quello che anticipò la seconda guerra mondiale. 

Scusatemi per l’ovvietà – lo ripeto – ma davvero ne abbiamo le tasche (e non solo le tasche) piene dell’ignoranza di molti e dell’arroganza di taluni che si atteggiano a ministri, ma che di “ministero” forse non hanno la ben che minima idea. Perché il servizio si svolge anzitutto nell’umiltà. E, Forse, sarebbe ora che la nostra politica, come i nostri ragionamenti, dovrebbero recuperare questa virtù da troppo tempo messa da parte! 



Don Giuseppe Fazio




giovedì 26 luglio 2018

SE UN PRETE VIOLENTA UN BAMBINO … QUANTA È LA SOFFERENZA?

Rubrica di attualità: Pensare fuori dalle righe. 

Dopo l’ennesimo arresto di un sacerdote trovato in atteggiamenti di intimità con una bambina di appena 10 anni nella sua macchina, ho avvertito la necessità di dedicare questo spazio ad una riflessione in merito.
A meno di due mesi dalla mia ordinazione sacerdotale – lo ammetto – ho avvertito un senso di smarrimento. Non vale la giustificazione fondata sul fatto che le violenze su minori ad opera di preti sia numericamente inferiore rispetto a quella commessa da laici. Non vale nemmeno il “sono uomini come tutti gli altri”. Il senso di smarrimento è tanto, com’è tanta la sofferenza. 
Non saprei spiegare cosa si possa muovere nella testa di questi uomini, di questi sacerdoti. Non saprei dire se è malattia (forse sarebbe una giustificazione, forse no), perversione, pazzia, o cos’altro. 
Quando ho appreso la notizia ho avuto semplicemente una reazione: “Signore, basta. Liberaci da questa piaga”. Riguardo a chi scandalizza uno di questi bambini il Signore ha detto che sarebbe meglio “per loro mettersi una macina al collo e gettarsi in mare”(cfr. Mt 18,6). Parole dure come quelle di violenza che ho letto in tanti fratelli e sorelle, anche se, quest’ultime, ovviamente non le condivido. Alla violenza non bisogna mai aggiungere altra violenza. Questo ci è davvero chiaro.
Faccio davvero tanta fatica a scrivere per questo semplicemente vorrei invitare, chi avrà la pazienza di leggermi, ad avere alcuni atteggiamenti:
a)   Indigniamoci e riflettiamo. Perché casi di violenze su minori stanno aumentando? Perché gli stupri in genere sono in crescita? Riflettiamo e cambiamo qualcosa della nostra vita. Quanto è difficile!
b)   Preghiamo per questi bambini. Che ferite che sono loro inflitte. Ho i brividi. Dicono che, quando papa Benedetto XVI ascoltò i racconti dalla voce delle vittime, pianse amaramente con loro. Preghiamo per questi bambini perché il Signore faccia ciò che nessun uomo è capace di fare: ridonare loro la vita che è stata strappata con violenza da chi invece avrebbe dovuta custodirla. 
c)   Preghiamo per i loro genitori. Per chi non sapeva e adesso sarà distrutto dal rimorso di non aver capito, intuito o protetto adeguatamente i propri cuccioli. Per chi sapeva (non solo tra i parenti) e non ha avuto il coraggio di denunciare. 
d)   Preghiamo per questi consacrati che si sono macchiati di questo grave crimine e peccato peggiore, forse, di qualsiasi altro. È difficile? Da morire. Vorremo far prevalere la violenza? È umano. Ricordo qui le parole di Gandalf a Frodo ne “Il Signore degli Anelli”: FRODO: Che peccato che Bilbo non l'abbia (Gollum) ucciso quando poteva! GANDALF: Peccato? E’ stata la pena che gli ha fermato la mano. Molti di quelli che vivono meritano la morte e…Molti di quelli che muoiono meritano la vita. Tu sei in grado di valutare, Frodo? Non essere troppo ansioso di elargire morte e giudizi. Anche i più saggi non conoscono tutti gli esiti. Il mio cuore mi dice che Gollum ha ancora una parte da recitare, nel bene o nel male, prima che la storia finisca. La pietà di Bilbo può decidere il destino di molti. 


Sì, forse la preghiera è la risposta più saggia, più divina ad ogni altra reazione umanamente comprensibile. Ah … un’ultima cosa. Sempre da prossimo sacerdote, vi chiedo: non fate di tutta l’erba un fascio. Noi per primi soffriamo per questi scandali, risparmiateci altra sofferenza con parole insipienti. Evitateci altra sofferenza e, anzi, soffriamo e preghiamo insieme. Ne abbiamo bisogno. Se lo credete condividete questo invito con i vostri amici. Certo della vostra comprensione vi saluto con affetto chiedendovi anche una preghiera per me e per i vostri parroci. 



Un mezzo prete (come mi chiamano i miei scout) che soffre




domenica 8 luglio 2018

Bambini: vite stravolte dalla guerra.

Rubrica di attualità: Storie di umanità.


Siria. La piccola disabile con i barattoli per gambe. 
Una storia che arriva dalle terre medio-orientali, martoriate dalla guerra. La piccola siriana, Maya Merhi, 8 anni, figlia della guerra, nata senza gambe. Il suo è un disturbo congenito ereditato da suo padre. 
La guerra ha costretto Maya, insieme alla sua famiglia, a fuggire da Aleppo per trasferirsi in Turchia in un campo profughi. È proprio in questo contesto che il padre ha avuto un’idea fantasiosa e geniale: si è inventato dei barattoli che potessero sostituire le protesi per aiutare Maya ad avere una vita migliore.
Dopo questo gesto di amore, grazie alla generosità e competenza di un medico, la vita di Maya è cambiata. Alle sue gambe son state, infatti, instaurate delle vere e proprie protesi. 


Marianna Sarpa




giovedì 5 luglio 2018

L’ITALIA È UN PAESE PERBENISTA CHE STIGMATIZZA I FALSI MALI E SPESSO SI DIMENTICA DI LAVORARE PER IL BENE


Rubrica di Attualità 
"Pensare fuori dalle righe"



Devo ammettere che inizio a percepire una sorta di allergia ai sempre più insistenti discorsi populisti sugli immigrati. Qui non si tratta più di “accogliere” o “non accogliere” perché, se così fosse, varrebbe la pena parlarne ancora. 
Qui il problema è un po’ più a monte: questi fratelli e sorelle che giungono da terre che  - lo ricordiamo per gli smemorati – soffrono di problemi causati da noi occidentali (guerre, sfruttamento delle risorse, corruzione, ecc …) ormai sono diventati il problema dei problemi. 
Un famoso film, ambientato a Palermo, faceva dire ad uno dei suoi attori che l’unico problema nella splendida città siciliana erano soltanto le buche sul manto stradale ed il traffico. Non c’era mafia, non c’era droga, non c’era corruzione, bensì soltanto traffico e buche. 
Adesso il problema, benché le buche, per esempio a Roma, causino morti, sono gli immigrati. 
Dicevo inizio a percepire una grande irritazione allergica quando sento queste chiacchiere prive di senno perché continuamente e con una certa frequenza sto imbattendomi con problemi ben più seri e ben più antichi che, però, a noi italiani non piace vedere. 
Uno tra questi è il caso di un ex-detenuto di Roma che, scontata la sua pena, si è pentito di tutti i suoi reati e che, proprio qualche ora fa, mi ha telefonato disperato dicendomi: “Padre, ho un figlio e non riesco a trovare nessun modo per sostenerlo. Non voglio tornare in mezzo alla strada, ma nessuno riesce a darmi un pezzo di lavoro. Eppure sarei disposto a fare di tutto anche a raccogliere la spazzatura o a lavare i gabinetti”. E poi aggiungeva con un misto di rabbia e disperazione: “vede, padre, mi domando a che servono tanti sforzi e tanta buona volontà”. 
Per un attimo mi è venuta la tentazione di rispondergli con sarcasmo: non ti preoccupare il vero problema sono gli immigrati. 
Non è da meno quel ragazzo (italiano e appena ventenne) che – disperato per l’errore commesso – mi diceva qualche tempo fa: “Padre, mi hanno rubato il futuro. Mi sono lasciato fregare. L’idolo del denaro mi ha spinto ad accettare lo spaccio della droga. Anche perché alternativa di lavoro non ce n’era”. 
Anche a lui avrei dovuto rispondere che è colpa degli immigrati che rubano il nostro lavoro? 
Avrei dovuto dire altrettanto a quella mamma disperata che, nonostante il marito in carcere e la figlia piccola, cerca disperatamente lavoro per evitare di cadere in ambienti sbagliati. Nondimeno avrei dovuto dire lo stesso ad un’amica che mi partecipava tutto il suo dispiacere per essere dovuta andare a lavorare fuori dalla nostra amata calabria perché da noi ormai il lavoro lo trovi soltanto con una raccomandazione o se accetti di essere sfruttto. Forse avrei dovuto … ma no, non l’ho fatto. 
Vorrei dire, invece, a questi tanti ben pensanti che, se si guardassero realmente intorno, se uscissero dal loro comodo salotto, se si staccassero per alcuni istanti dalla tastiera del loro pc, attraverso il quale pontificano, manco avessero chissà quale titolo di dottore o sociologo o cos’altro; a questi tali vorrei dire che i problemi dell’Italia sono ben altri e da troppo tempo. Rispondono al nome di corruzione, lavoro nero, sfruttamento, evasione, sotto pagamento, mafie che impediscono uno sviluppo dell’economia sereno e limpido. 
Se questi tali poi dovessero ribattere che questi problemi sono luoghi comuni avrei piacere di rispondere che volentieri li accompagnerei in giro per le strade della capitale come quelle della Calabria (luoghi che frequento personalmente) per mostrare che questi “luoghi comuni” hanno dei nomi, dei volti, delle storie di disperazione, sofferenza, paura. 
A proposito di paura - devo ammetterlo - mi fa paura un’Italia così rozza e ignorante. Mi fa davvero paura un’Italia così miope ed incapace di vedere i veri problemi. 
Mi diceva l’altro giorno un mio amico e compagno di studi: “Se gli italiani utilizzassero le loro energie per i problemi che da sempre ci soffocano così come le stanno utilizzando per parlare degli immigrati saremmo un paese davvero migliore”. A lui ho amaramente risposto dicendo che l’Italia è il paese in cui si pontifica su problemi falsi o comunque distorti per distrarsi da quelli veri ed urgenti.


P.s. Se avete una soluzione ai casi elencati – poiché sono persone vere che conosco personalmente – potete farvi avanti, magari in privato. 


Don Giuseppe Fazio




giovedì 14 giugno 2018

CRISTIANI DA FAR PAURA

Rubrica di Attualità: Il mondo interroga la fede - la fede interroga il mondo.

Qualche giorno fa siamo scesi in spiaggia per goderci prima della partenza una giornata in riva al mare, che rivedremo se tutto va bene, a settembre. Vedo arrivare in lontananza lui, il “vu cumprà”. Percorre un lungo tratto di spiaggia nonostante ci siano pochi bagnanti. Come al solito, porta sulle spalle un peso non indifferente. Non è per niente giovane, e si vede che seppur abituato alle temperature alte del Senegal, sia provato dal caldo e dalla stanchezza. Come tutti gli altri, ha una famiglia lontana alla quale cerca di assicurare il minimo necessario. E ha una casa, abbastanza diversa da quelle occidentali, che è il luogo in cui col pensiero si reca centinaia di volte al giorno, per darsi forza. Arriva sempre con la testa bassa e le spalle curve e portate in avanti; sa anche lui che la gente è stanca perché sono in tanti. Ma appena incontra uno sguardo, sorride teneramente. Ogni tanto parliamo, e il suo modo di porsi è sempre discreto ed educato. Ogni volta che lo vedo mi chiedo quali fossero le sue speranze quando ha consegnato la cospicua somma di denaro che gli ha permesso di sognare. Avrà mai pensato che sarebbe stato così faticoso? E’ comunque fortunato, perché a differenza di molti (oltre i trenta mila morti negli ultimi anni durante l’attraversata), lui alla destinazione è arrivato. E ha la fortuna di avere questo lavoro che gli permette di guadagnare poco, ma abbastanza da poter dividere un affitto con altri connazionali, e in tasca gli restano così 200 euro mensili. Stavolta mentre lo vedevo arrivare, mi sono sentita in forte imbarazzo. Avrei avuto difficoltà a reggere il suo sguardo. Siccome non bastassero già i pesi, ora si è aggiunta anche la paura del non sapere come e dove andrà a finire domani. 
Ho provato vergogna di essere cittadina di un paese, culla della cultura, della civiltà e del diritto che ora condanna chi già ha perso tutto. Ho ricordato il giorno di qualche anno fa in cui dissi credendoci pienamente “Giuro di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi dello Stato”. Fosse oggi, penso che non avrei più lo stesso entusiasmo. Nel guardarlo, nel pensare agli sfortunati sull’Aqaurius, per un attimo non mi sono riconosciuta più in questo stato. Credo sia una cosa grave, ma è difficile riconoscersi in uno stato fatto di persone che da settimane non smettono di sentenziare con parole che sanno di odio contro i deboli, al mercato, agli angoli delle strade, nello spazio virtuale. Così come non mi riconosco affatto in chi ora ha nelle mani le loro sorti e che questo stato lo rappresenta. Fa male toccare con la mano l’inconsistenza del pensiero comune, mediocre, perché assorbiamo tutto come spugne senza riflettere e senza cercare da soli le verità. Facciamo nostro tutto ciò che ci viene detto, non solo perché non teniamo più libri, ma telefonini in mano, e anche perché siamo tanto limitati nell’amare. Ci sono persone che si fanno i conti con i soldi dei fondi europei (che non si posso dirottare) destinati alla gestione dei migranti dicendo ancora che con quelle somme avremmo potuto aiutare “i nostri”. Si, li abbiamo aiutati già, specialmente coloro che hanno speculato sulla gestione delle quote. Ma non vorrei nemmeno da lontano toccare la soglia di un pensiero politico… La stessa veemenza che dobbiamo mettere nel chiedere alla politica di fare di più e di meglio, dobbiamo poi usarla nel fare ciò che tocca a noi cristiani: servire, operare senza “se” e senza “ma”.
La cosa che fa più male è vedere e sentire cristiani che battono i pugni sul tavolo con più frenesia degli altri. Per un cristiano non c’è un “prima i nostri”, perché “nostro” è ogni essere umano. C’è invece un “amatevi gli uni gli atri come io ho amato voi”, perché chi non ama il fratello che vede, non può amare Dio che non vede. C’è un “ero straniero e non mi avete accolto”, che oggi più che mai graffia le coscienze fino a farle sanguinare. C’è un “abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Gesù Cristo”. C’è il “come ho fatto io, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri”. Le parole di Cristo sono imperative: dovete! Inginocchiarsi di fronte all’altro per sollevarlo dalla sua povertà fisica o morale, dalla sua sofferenza, per il cristiano non è un optional, semplicemente deve: “Fatte questo in memoria di me.” “Dovete”: non ci sono delimitazioni o restrizioni; non ci sono postille che dicano che i primi devono essere quelli come noi, postille che indichino come alcuni debbano venire prima di altri. Non è affatto nello stile di Gesù manifestare preferenze, se non nei confronti degli ultimi, chiunque essi siano. Fa male guardarsi attorno e vedere cristiani che (facendo anche molto rumore) prendono le distanze dal Vangelo. La “pacchia” non è finita come pensano, ma appena inizia. Inizia una pacchia molto pericolosa, quella della coscienza e della ragione che, rifacendomi alla visione di Goya, farà nascere mostri. Basta fermarsi a riflettere su dove sia finito il nostro spirito cristiano, del quale sappiamo ormai solo riempirci la bocca. 
“Lupus est homo homini” di Plauto, oggi riassume perfettamente la nostra condizione. Fa male l’ipocrisia nel dirci cristiani, uomini e donne che accolgono, che servono, che amano. No, non sappiamo amare nel fermarci al cerchio stretto della propria famiglia, ambiente o struttura nella quale ci piace identificarci. Non è amore quello che si chiude al diverso. Non è amore quello che fa comodo. Non è amore quello che pone condizioni. Non è amore quello che guarda alle proprie necessità e ne fa una priorità. Non è amore quello che isola. Non è amore quello che giudica. Non è amore quello che non sa più guardare negli occhi. Mi fa paura ciò che sento e leggo questi giorni, e fa paura il nostro denudarci gratuitamente e sbandierare con leggerezza sentenze che ci rendono così piccoli. E’ vergognoso e offensivo nei confronti della nostra natura, che è ben altro. Fa paura guardarsi attorno, anche tra le persone con le quali si condivide lo stesso credo e cogliere che sono pochi, troppo pochi coloro con i quali si è in sintonia nel sentire e pensare. Sopraggiunge una sorta di scoraggiamento, perché non posso più avere la fiducia nemmeno nelle persone che pensavo di conoscere. E se un giorno fossi io a dover avere bisogno di loro? Fa paura al pensare che i nostri figli potrebbero assimilare l’ideologia della disumanizzazione dell’uomo, il futuro che stiamo costruendo: quello di arrivare a guardare inerti verso i disperati che bussano alle porte, perché noi abbiamo delle priorità e abbiamo già perso abbastanza tempo. E hanno inventato il “perbenismo”, dietro il quale c’è la resa di fronte al peso di una vocazione, quella cristiana, che sappiamo… è molto impegnativa e molto scomoda.
Scrive padre Giuseppe Celli nella sua proposta di lectio divina, Grembiule ai fianchi: “Beati noi se serviamo i sofferenti, gli incompresi, gli umiliati e tutti i crocifissi dei nostri giorni, senza mai servirci di loro. […] Beati noi se – indipendentemente dall’essere uomini o donne- sappiamo avere un cuore di madre per coloro che incontreremo sul nostro cammino. […] Beati noi se - a immagine della Comunità Trinitaria- sappiamo essere comunione di persone uguali e distinte. Allora il sogno di Dio si fa realtà.” Beati noi, se avremo il coraggio di seminare amore, camminando controcorrente sulle vie del mondo.



Andreea Chiriches Leone




sabato 9 giugno 2018

“FRONTIERA” E COERENZA. UNA QUESTIONE DI SCHEMI.

Rubrica di Attualità: Pensare fuori dalle righe.


È più forte di me … in momenti come questi, avverto un grande senso di confusione e di contraddizione, quasi di inquietudine. Non so se avete presente quei momenti in cui hai lo stomaco contratto e la voglia di spaccare a testate il muro; ecco questo è uno di quei momenti. Perché? Lo spiego subito …

Qualche settimana fa, durante il giro d’Italia, si sono levate da diverse parti (cittadini, istituzioni, partiti politici, ecc …) critiche per il becero modo di alcuni giornalisti Rai con il quale sono stati presentati un paio di paesi della Calabria e della Sicilia. Tra questi paesi c’era il mio. 

In quelle ore era un continuo di messaggi, articoli, post sui social: tutti erano indignati. Giusto – mi sono detto. Non si può sfregiare l’immagine di un paese in diretta nazionale. Bisogna avere delicatezza, tatto, comprensione per una terra che a fatica, lentamente, si sta rialzando dopo anni di violenza, morte e silenzio. Con un po’ di fatica ho compreso anche il malumore di tanti miei concittadini che, ancora una volta, si son sentiti gettati addosso l’etichetta di una storia che pesa a tanti di noi. Pesa ai parenti di quegli oltre dieci morti ammazzati dei quali ancora non si conosce il nome degli assassini e dei mandanti; pesa a quelle mamme, quei fratelli e quelle sorelle che non hanno nemmeno una tomba dove piangere i loro cari perché i loro corpi son spariti chissà dove; forse nell’acido, forse infondo al mare, magari in una di quelle navi che – si dice – non esistano. 

Ieri, invece, a Catanzaro si è concluso il processo “Frontiera”; processo che vede alla sbarra quasi la totalità del cosiddetto "Clan Muto". Sono state date pesanti condanne e assoluzioni, se non assurde, almeno poco comprensibili. Sarà un limite mio, ma io non riesco a capire mai com’è possibile che se per un detenuto si chiedono venti anni, poi si finisce con un’assoluzione. Ma che sono limitato – io – l’ho sempre saputo. Tuttavia il processo ha portato ad una grande svolta: 191 anni di carcere circa per 24 persone. Che significa? Lo Stato c’è e si sta riappropriando del suo territorio. 

Ecco … da ieri speravo di vedere un post, una dichiarazione ufficiale, almeno di chi si è costituito parte civile, dei cittadini. Niente … Perché in questi casi non c’è una passerella da solcare, un voto da guadagnare, un’immagine da rifarsi. Non c’è nemmeno un morto da piangere. E allora perché scrivere? Perché dire qualcosa?

Ci si copre sempre con il maledetto alibi: “lo stato è assente”. Ecco lo Stato sta celebrando un importante processo in Calabria (per la verità più di uno ne sono in corso), ma lo Stato non sono solo le istituzioni, siamo prima di tutto noi cittadini. Eppure preferiamo il silenzio. 
Ma non succede solo in Calabria. Ad Ostia – a pochi km da Roma – Federica Angeli si è vista costretta ad annullare la presentazione del proprio libro, attaccando frontalmente i propri concittadini, per svegliarli. Per fortuna c’è riuscita e, non solo i cittadini di Ostia, giovedì prossimo scenderanno in strada per dimostrare che sono a fianco dello Stato nel processo contro il famoso “clan Spada”, quello della testata al giornalista, e - magari - l’aula del tribunale di Rebibbia non sarà più piena solo di avvocati, giornalisti e dei parenti o tifosi (perché ci sono anche quelli) degli imputati, ma anche di cittadini onesti che ci mettono la faccia. 

Ma sì … infondo i miei amici me lo dicono sempre: “Giuseppe, non tutti ragionano come te. Hai tanti schemi, aspettative”. Boh … penso che sia vero. Hanno ragione. Però, secondo me, la coerenza ed il coraggio non sono schemi. Sarà uno schema anche questo? 

Un pensiero – alla fine – lo voglio rivolgere a quegli uomini e quelle donne che per diversi anni non abbracceranno i loro familiari. L’ho fatto tante volte, lo voglio rifare oggi: “Voi potete essere, con il vostro affetto e la vostra decisione, un importante pungolo che spinga i vostri cari a cambiare vita. Voi potete, con la sofferenza che portate nel cuore, prendere delle decisioni per invitarli a riflettere, a cambiare vita, a rinascere. Stategli accanto, ma nella verità! Voi potete, noi stiamo accanto a voi”. 


Don Giuseppe Fazio





sabato 2 giugno 2018

POLITICA E COERENZA: FACCIAMOCI QUALCHE DOMANDA.

Rubrica di Attualità: Pensare fuori dalle righe. 


Chi segue questo blog sa benissimo che quasi mai tratto argomenti che riguardano la politica. Da consacrato, infatti, non è mio intento, e neppure mio compito, scrivere su questo o quel partito. Tuttavia ci sono dei casi, e quello che mostrerò a breve ne è uno, in cui è il Vangelo stesso che ci interpella riguardo alla questione politica nel senso più profondo del termine. Chi sostiene, infatti, che Politica e Vangelo siano due cose differenti ed inconciliabili dovrebbe, non solo rileggere il testo sacro, ma anche il Magistero ufficiale della Chiesa dell’ultimo secolo. Basti ricordare gli interventi di Paolo VI il quale, tra le altre cose, definì la Politica la più alta forma di carità, oppure quelli di Francesco che all’Azione Cattolica Italiana ha espressamente chiesto di formare uomini e donne capaci di impegnarsi in Politica, quella con la “P” maiuscola. 
Posta questa breve premessa, per evitare le più superficiali reazioni, vorrei semplicemente esporre una riflessione sul concetto di coerenzache purtroppo noi italiani abbiamo troppo facilmente messo da parte soprattutto nel campo della politica. Un tempo la coerenza era il minimo indispensabile richiesto perché si potesse sperare di essere candidati in un partito, adesso sembrerebbe il minimo dispensabile. Lo scenario politico delle ultime settimane, se ancora ce ne fosse stato bisogno, ce lo ha ampiamente dimostrato.
Facciamo alcuni esempi: Il 23 Maggio Di Maio sosteneva che i ministri li avrebbe dovuti scegliere il Presidente della Repubblica. Pochi giorni dopo, quando Mattarella pone il veto sulla candidatura di Savona al ministero dell’economia, lo stesso Di Maio sostiene che il Presidente abbia compiuto un atto non costituzionale (Mentiva il 23 Maggio?). Solo poche ore dopo (forse qualcuno gli avrà fatto notare la contraddizione) arriva a sostenere che il problema non fosse il veto, ma la motivazione data, manifestando la determinazione a procedere per l’Impeachment. Non passa neppure una settimana che l’impeachment sembra un brutto incubo, si torna a collaborare e formare un governo con un presidente della Repubblica che poche ore prima era stato definito irrispettoso della Costituzione e del volere dei cittadini cosa sulla quale non si poteva assolutamente transigere a qualunque costo. 
Un esempio ancora più datato, ma non troppo, è quello di Matteo Renzi, il quale aveva garantito che, se avesse perso il Referendum (ritengo che non ci sia cosa più squallida che politicizzare un referendum sulla costituzione), si sarebbe completamente ritirato dalla scena politica.  Più simpatico, si fa per dire, fu Matteo Salvini che prima entra in polemica con alcuni ecclesiastici, poi in campagna elettorale sventola il rosario per accaparrarsi i voti dei cattolici, come se bastasse avere un rosario in tasca per essere tali. 
Insomma … ce n’è per tutti i gusti. Posti questi esempi – lo ammetto – in modo del tutto sommario. Vorrei, questa settimana, condividere con voi una semplice domanda: Se questi personaggi continuano a governare lo scenario politico della nostra amata nazione, se si permettono questi cambi di idee senza nemmeno la preoccupazione di nascondere evidenti contraddizioni, non vuol dire forse che qualche responsabilità sarà anche nostra?
In questi giorni pensavo: l’unica cosa positiva di queste ultime settimane è stata che un po’ tutti gli italiani hanno iniziato ad interessarsi nuovamente alla politica. Allora forse è il caso – proprio ora – di cominciare a rivedere i parametri con i quali si vota. Magari sarebbe ora di smettere di votare “per protesta”, “per simpatia”, “per parentele”, “per ricambiare favori”. Sarebbe, forse, il caso di cominciare a votare sulla base dei programmi elettorali, della coerenza con le proprie idee, della trasparenza e della serietà dei candidati. 
Forse sono state un po’ dure le parole di Oettinger; un giudizio duro che da un uomo di tal livello nessuno si sarebbe aspettato, ma non possiamo non ammettere che un fondo di verità in quella frase si trova; o forse almeno una speranza. Sì, quella che tutto questo teatro al quale stiamo assistendo da diversi anni e che negli ultimi mesi ha assunto tinte di ridicolo, abbia insegnato a ciascuno di noi quanto è importante votare con coscienza, intelligenza e attenzione. Del resto dovremmo ricordare ogni volta prima di esprimere la nostra preferenza che, parafrasando una pericope del Vangelo di Luca, “chi è incoerente nel poco, lo è anche nel molto”.


Don Giuseppe Fazio