venerdì 20 dicembre 2019

SARÀ NATALE ... SE TI AMI UN PO' DI PIÙ


RUBRICA DI ATTUALITÀ


"Pensare fuori dalle Righe"






Da piccoli ci hanno sempre detto che dobbiamo essere migliori. Ci hanno sempre insegnato ad eliminare i difetti, le imperfezioni; ci hanno sempre detto che dovevamo superare i nostri limiti. E tutto ciò – precisiamolo – ce lo dicevano con buone intenzioni.

Crescendo, ho capito che è una grande presa per i fondelli. Certo, bisogna lavorare sulle proprie povertà, bisogna provare a migliorarsi, ma questo non è ciò che conta. La prima cosa che conta è volersi bene. Accettarsi.

Quanto è difficile guardarsi allo specchio e potersi dire con un sorriso che nasce dal cuore: “io mi voglio bene!”
La fregatura sapete qual è? Che se non ti vuoi bene per davvero, difficilmente vorrai bene agli altri.

Il Natale è un po’ la festa che ci invita a volerci bene. Sapete perché? Lo si capisce davanti al presepe. Il Figlio di Dio non va ad abitare in una casa, in un palazzo, ma in una stalla. Non le stalle dei nostri presepi con lampadine, pulite, ordinate. Una stalla vera! Fredda, puzzolente di sterco, magari fatiscente.

Una stalla che somiglia tanto alla mia e, forse, anche alla tua vita: piena di imperfezioni, dei fetori dei nostri egoismi, della freddezza della nostra superbia. Eppure proprio da lì Dio desidera partire.

Potrebbe darsi, allora, che per me e per te, quest’anno festeggiare il Natale voglia dire accettarsi un po’ di più. Smettere di vivere per le aspettative degli altri su te stesso oppure, al contrario, delle aspettative nostre sugli altri.

Sì, forse starai pensando che hai una moglie o un marito acida/o, che hai dei figli scapestrati, forse stai pensando che non hai o non avrai mai dei figli e che non hai neppure una moglie o un marito. Forse stai pensando che ti senti solo, che hai fallito in tante cose e deluso tante persone. Non fa niente. È Natale soprattuttoper te.

Il problema, in fondo, non è che la tua vita non sia un palazzo tutto in ordine, perfetto, pulito ed elegante. Il problema sta nel fare entrare in questa stalla il figlio di Dio.
Oh alla fine pensateci … questa stalla puzzolente è diventata così importante che, a distanza di oltre duemila anni, ancora la rappresentiamo nelle piazze, nelle scuole, nelle chiese e nelle case.

Guarda che può succedere la stessa cosa alla tua vita. Pensa a San Paolo, San Pietro, Sant’Agostino, San Francesco, San Pio … prima di incontrare Gesù Cristo erano delle stalle fatiscenti, dopo … eh … dopo … che vo dico a fa?

E allora ti auguro di vero cuore Buon Natale … ti auguro che finalmente nella stalla del tuo cuore entri sul seriola luce di questo bambino che è venuto a rendere bello ciò che per il mondo è brutto.
Sarà Natale se, amandoti, lascerai a Dio di compiere questo bellissimo miracolo.



Don Giuseppe Fazio
Aldo Maria Cupello



giovedì 19 dicembre 2019

AMANO LA CALABRIA, MA GLI SIAMO INDIFFERENTI

 RUBRICA DI OPINIONE


"Agorà: Piazza di discussione"



La Calabria, come tutto il Meridione, è l’asso nella manica di qualsiasi politico arrivato ai piani alti dei palazzi governativi romani. Se sei in campagna elettorale, infatti, non puoi non citare quanto sia bello il Sud, quanto vada rivalutato, quante bellezze riservi e quanti giovani in gamba formi ogni anno; il Meridione piace, e fa sempre comodo mostrarsi dalla parte di noi “terroni”. E la cosa più brutta è che ci si attacca all’amo anche facilmente, paralizzandoci a bocca aperta e facendoci applaudire al Robin Hood di turno, che casualmente esce dall’ombra qualche mese prima di eventuali elezioni future. E questo, “l’asso Sud”, non fa sconti neanche per le elezioni regionali del 26 gennaio 2020, tant’è che ci ritroviamo - e ritroveremo - senza alcun riscontro positivo. Per l’ennesima volta.
Le votazioni di gennaio, infatti, saranno forse le più confusionarie mai avute; per la Calabria, s’intende. Eh già, perché in regioni come l’Emilia Romagna si sta facendo campagna elettorale da mesi. Sfrecciano auto pubblicitarie come in “L’ora legale”di Ficarra e Picone, volantini nelle cassette della posta, trasmissioni tv, comizi a volontà, i maggiori partiti si sono riuniti a tavolino per presentare un loro candidato e… Noi? Per la punta dello Stivale sembra, invece, che i “giganti” non si siano neanche riuniti al bar del paese, forse avranno accennato qualcosa su WhatsApp, al massimo. Siamo a poco più di un mese di distanza e ancora non si presenta né un centrodestra né un centrosinistra realmente unito (anche se l’ultima sembra aver trovato un equilibrio), ancora non si ha una lista stabile e ufficiale a cui affidarci, bensì dei nomi che vagano un po’ solitari. Al momento troviamo la ricandidatura dell’attuale Presidente della Regione Mario Oliverio, in lista propria sul versante di sinistra. A fargli concorrenza, all’interno della stessa, sono Carlo Tansi(lista propria) e Filippo Callipo(d’altronde, in un periodo in cui emergono le “Sardine” il tonno non può rimanere in disparte) appoggiato dal Partito Democratico. Luigi Di Maio, dipendente ormai da Rousseau, concorre da solo candidando Francesco Aiello. A destra la situazione è più delicata. Prevale un Mario Occhiutoin lista propria, visto il mancato appoggio da parte dei nazionali che sembrerebbero puntare su Jole SantelliSergio Abramo(entrambi con l’ok di FI e appoggiati eventualmente dalla Lega), seguiti dalla candidata targata Meloni Wanda Ferro(FDI). Insomma, la situazione è abbastanza confusa. 
Ciò non può che denotare uno scarso interesse da parte dell’alta classe politica nei confronti della terra calabra, la quale viene mandata ancora più a fondo di quanto non lo sia già. La Calabria è vista solo come terra di mafia, comuni in dissesto, aziende fallite, di vagabondi, di sussidi alla povertà che rasentano la carità oltre che il ridicolo; la Calabria è unicamente patria di una giustizia che fa acqua da tutte le parti, che confonde Codice Civile con Codice Penale, di una sanità che non garantisce neanche un parto; è quella Regione che ogni anno deve avere un “piano di recupero” diverso, ma che finisce sempre negli ultimi cassetti di Palazzo Chigi, quelli impolverati dei quali probabilmente si è persa anche la chiave.
Dunque, evitate di prenderci in giro, evitate di proporre politiche di sviluppo quando non ufficializzate neanche i candidati per guidarle, evitate di interessarvi del Meridione, ma con una data di scadenza, perché la verità è una, una sola: la Calabria non è l’Emilia, come non è la Lombardia o il Piemonte, della Calabria non vi interessa e non vi è mai interessato nulla, se non per meri interessi elettorali. 


Aldo Maria Cupello
 aldocupello6@gmail.com




martedì 17 dicembre 2019

PERCHÉ LA SOLITUDINE MI FA PAURA?


RUBRICA DI ATTUALITÀ


"Pensare fuori dalle Righe"






Abbiamo tutti paura di qualcosa. Chi del buio, chi dell’altezza, chi degli insetti, ecc … ma c’è una paura che ci accomuna un po’ tutti. Una paura che, per lo meno, abbiamo attraversato tutti quanti. Magari c’è chi l’ha superata, chi la sta superando o chi ancora ne è profondamente schiavo … questa è un’altra storia. Resta il fatto che sia una tappa obbligata della nostra esistenza: la paura della solitudine.

Perché la solitudine ci fa così tanta paura? È una paura così radicata che ci siamo ingolfati di “relazioni”: facebook, instagram, WhatsApp, Telegram. Siamo sempre online e, anche quando non lo siamo, abbiamo le cuffiette nelle orecchie. Silenzio e solitudine devono stare fuori dalla nostra quotidianità.

Ma perché? Da un lato la paura dinanzi a qualcosa esprime il fatto che non possiamo tenere tutto sotto controllo. Dice di noi che siamo fragili, frangibili. Che io e te abbiamo paura vuol dire che non siamo invincibili come spesso speriamo. Una paura in fondo manifesta un punto debole e, in un tempo come questo, avere punti deboli è un lusso che non ci si può permettere.

La paura della solitudine, però, è un po’ la panacea di tutte le paure. Se ci pensate, infatti, se hai paura del buio, per esempio, ma sei con un’altra persona quella paura diventa “meno paurosa”. La solitudine è l’espressione del fatto che alla fine ogni paura possa diventare un baratro.

Eppure questo sentimento ha qualcosa di grande da dirci. Una cosa fondamentale, senza la quale non siamo neppure liberi di amare gli altri. Quando, infatti, ho paura della solitudine inizio a cercare altre persone per un mio bisogno, dunque, non in modo libero.
Una relazione iniziata per riempire una solitudine è un fallimento annunciato. La cosa strana sapete qual è? Che più cerchiamo di riempire questa solitudine, più essa si manifesta, fagocita ogni cosa. Sembra davvero un pozzo senza fondo. Per evadere in molti si stordiscono: alcol, droga, sesso, soldi … sono tutti palliativi dettati dalla paura di questa “bella signora”, come la chiama Gianni Morandi, in una sua datata, ma bella canzone. 

Che fregatura. Più ne hai paura, più la solitudine ti si attacca al cuore. E allora, quale soluzione? Dialogarci.
La nostra solitudine ha da dirci qualcosa di estremamente importante: i nostri cuori non possono essere saziati dalle cose e neppure dalle persone che ci stanno intorno. Per quanto puoi avere delle bellissime relazioni, dentro il tuo cuore, in fondo, in quel posto in cui entri la sera quando, stanco di una giornata, sei solo con te stesso, la solitudine rimane.

Nessuno può conoscere alla perfezione i tuoi dubbi, le tue paure, le tue speranze, le tue ferite, i tuoi traumi, i vizi dai quali non riesci ad uscire, le sconfitte che ancora bruciano. Nel tuo cuore, che ti piaccia o no, rimarrà sempre uno spazio di solitudine.
Per questo la solitudine ci fa paura. Sì, ci fa paura perché rimane lì, perché ci ricorda che tutto quanto siamo e abbiamo non ci basta.

Molti per questa paura si sono rovinati l’esistenza, altri, a partire da questa, sono sbocciati. Dove sta la differenza? Come far diventare la solitudine un trampolino? Abbiamo bisogno di non lottare più con lei, di accettarla come pungolo che ci ricorda le cose importanti della nostra vita. 

La solitudine, infatti, deve rimanere lì perché ci deve ricordare che questa terra non ci basta. Questa compagna di strada deve diventare lo spazio nel quale devono echeggiare domande più grandi. E non importa che tu sia ateo, agnostico o fervente cristiano. In questo spazio di solitudine devi imparare a domandarti che senso ha la tua vita, dove stai andando, se sei davvero felice dei tuoi progetti. 

Questa solitudine è una solitudine benedetta perché in qualche modo ricorda al tuo cuore che siamo sazi soltanto quando afferriamo l’eterno. Questa solitudine ci fa paura in fondo perché ci ricorda che non siamo fatti per cose piccole, effimere. Abbiamo bisogno della grandezza di cui soltanto l’Infinito può riempirci.

Sì, la domanda su Dio e sulla nostra esistenza è ancorata proprio a questa solitudine; in questo silenzio esistenziale che, quando realmente abitato, inizia a dare sapore ad ogni cosa. Del resto solo quando accetti di essere solo puoi davvero essere con-solato; cioè puoi finalmente smettere di chiedere agli altri di toglierti la solitudine, per abitarla con te, per condividerla con loro.



Don Giuseppe Fazio
gfazio92@gmail.com





mercoledì 11 dicembre 2019

NEGLI AFFETTI? COME UNA LUMACA

RUBRICA DI ATTUALITÀ


"Pensare fuori dalle Righe"






Nella mia memoria di bambino è rimasto impresso, in modo indelebile, il mio primo incontro con una lumaca. Ricordo che vidi questo piccolo guscio del quale mia madre mi disse che custodiva un altrettanto piccolo animale.
Ero curioso, volevo che uscisse fuori. Ne giorni seguenti resi difficile la vita a molte lumache (intorno a casa se ne trovavano diverse). Le scuotevo, le agitavo, qualcuna la prendevo a calci, ma niente … queste lumache non si decidevano a venir fuori. Mute, senza difendersi, rimanevano soggette alle mie angherie.
Un giorno mi ricordo che ne raccolsi due o tre su un pezzo di polistirolo rimediato nel laboratorio di mio padre e, in preda alla “disperazione”, le misi sotto la fontana. Fu incredibile: dopo pochi istanti, con mia grande sorpresa e forse con non pochi sensi di colpa di chi, per scopo personale, aveva costretto quei piccoli esseri viventi ad abbandonare il loro guscio allagato, le lumache iniziarono a venir fuori dalle loro abitazioni.
In preda all’entusiasmo subito pensai di prendere in mano una delle povere malcapitate per osservarla da vicino. Non feci neppure in tempo ad avvicinarmi che la poveretta si ritirò nuovamente dentro la sua umida casa. 
Provai di nuovo con l’acqua, ma niente. Aspettai qualche minuto ed ecco che timidamente iniziarono a riaffacciarsi. Provai di nuovo ad avvicinarmi, ma il risultato fu il medesimo: un ritirata così veloce da poter smentire la proverbiale lentezza delle lumache. Questo durò diverso tempo. Mi accorsi che più la lumaca era spaventata, più tempo impiegava ad uscire fuori. Ogni qual volta batteva la ritirata il tempo di attesa si prolungava, a volte così tanto che poi mi stancavo abbandonando la lumaca (non posso giurare di non averne ucciso anche qualcuna in preda alla rabbia di quei rifiuti!).

Questo piccolo ricordo mi sembra che dica bene la verità del nostro modo di vivere gli affetti. Di fronte agli altri siamo un po’ tutti nella condizione di queste lumache: c’è chi è più intraprendente, chi meno, ma tutti usciamo allo scoperto soltanto quando ci sentiamo a nostro agio. Quando incontriamo una persona nuova stiamo nel guscio, impariamo a capire se ci si può fidare e, se questa si avvicina troppo, subito rientriamo dentro per paura. A volte capita che, fidandoci, qualcuno ci scuota un po’ di più, ci ferisca, ci faccia del male e allora rientriamo in quel guscio e per uscirne fuori ci vuole sempre di più, perché la paura di essere maltrattati è tanta.

Ammettiamolo: come ci dà fastidio quando gli altri, fossero anche persone a noi care, pretendono che noi usciamo allo scoperto seguendo le loro regole. 
Altre volte ci troviamo nella condizione di chi, spazientito, calpesta, offende, giudica, maltratta. Con quale risultato? Quella lumaca, pur senza parlare o difendersi, non uscirà mai fuori.

In fondo le lumache ci insegnano, con la loro timidezza, il senso del rispetto per gli altri, per i loro tempi, spesso troppo lenti.

Negli affetti, sì, siamo, senza colpa, come le lumache. Si tratta di accettare questa nostra realtà approcciandoci agli altri con il rispetto di chi deve comprendere che tutti siamo felicemente diversi. 

E allora l’arte dell’attesa (tendere verso), che caratterizza il tempo liturgico dell’Avvento che stiamo vivendo, s’incrocia con l’arte dell’aspettare (guardare verso). Dobbiamo tendere verso i gusci degli altri, ma poggiando – in modo rispettoso – gli occhi su d’essi e non su come vorremmo che fossero. Tale atteggiamento ci salverà dal calpestare il guscio altrui e ci restituirà, se saremo capaci di pazientare (soffrire), quello stupore soddisfacente di chi finalmente vedrà lentamente l’altro uscire da se stesso per venirgli incontro. 



Don Giuseppe Fazio
Gfazio92@gmail.com