lunedì 19 febbraio 2018

ESSERE TRAVOLTI O ESSERE COINVOLTI DALLA STORIA: CHE RUOLO HAI? PROTAGONISTA O COMPARSA?

Rubrica musicale: musicalMente

La storia siamo noi - Francesco De Gregori

Non poteva usare parole più belle De Gregori per descrivere il tempo in cui viviamo, lavoriamo, pensiamo, agiamo, il tempo in cui semplicemente siamo: è storia. E la storia siamo noi anche se scegliamo di non essere protagonisti, ma comparse. Qual è la differenza? Essere protagonisti significa dare un senso alla nostra presenza, non sottrarsi alla riflessione, non avere paura di metterci la faccia. Si è protagonisti del proprio tempo quando si prende consapevolezza del fatto che la mia parola, il mio pensiero e le mie azioni sono importanti, hanno peso e significato per gli altri e possono influenzare (positivamente o negativamente) chi è intorno a me. Qual è il modo più chiaro e concreto per essere protagonisti? Partecipare. 
Essere una comparsa significa esserci, ma non essere influente; significa osservare, ma da lontano; essere dotati di pensiero, ma non riflettere; avere la voce, ma non parlare. Essere comparsa significa scegliere di non avere scelta.
Questa premessa è essenziale per comprendere fino in fondo quanto è importante il nostro ruolo nelle prossime elezioni. La condizione di chi sceglie di astenersi dal votare è, infatti, quella di una semplice comparsa, presenze assenti. È una contraddizione in essere che non permette giustificazioni come: “non ho fiducia in nessun politico”, “non credo alle loro parole”, “non hanno mai mantenuto le loro promesse”, non lo permette per il semplice motivo che votare non significa solo dare fiducia ad altri, ma soprattutto significa dare valore e senso al nostro essere nel mondo, dare fiducia a noi stessi. La storia non è mai stata scritta da chi è rimasto in silenzio, o da chi ha aperto la bocca solo per criticare la realtà che lo circonda senza intervenire. La storia ha il sapore di chi ha avuto l'intelligenza di non sentirsi primo ma nemmeno escluso, di chi ha scelto di fare passi avanti e non rimanere fermo, di chi ha scelto di “dare fastidio” e non subire, di chi non è rimasto a letto ma ha perso il sonno per dire la sua.

La storia va avanti, è vero, non si ferma di fronte alla tua assenza ma, se è questa la tua scelta, di questa storia non sarai che una comparsa. Ciò che mette i brividi, come dice bene De Gregori, è che “la storia non ha nascondigli” e qualunque sia il ruolo che sceglie lei farà il suo corso. Devi solo decidere: vuoi essere travolto dalla storia o esserne coinvolto?

CLAUDIA LANZA



domenica 18 febbraio 2018

NON SIAMO FELICI PERCHÉ NON SAPPIAMO RINUNCIARE

RUBRICA DI ATTUALITÀ: PENSARE FUORI DALLE RIGHE



Lo scorso 11 Febbraio, come ben sappiamo, è stato il quinto anniversario dello straordinario, quanto rivoluzionario, gesto delle dimissioni di Benedetto XVI.
Un gesto che probabilmente non è stato ben compreso né ad intra, né ad extra della Chiesa; men che meno penso io di averlo compreso a fondo.

Tuttavia vorrei condividere con voi una piccola riflessione. In questi cinque anni si è parlato di dimissioni, di “abbandono della croce”, di fuga, ecc … vorrei però, a partire da quanto detto dal papa stesso in quel famoso concistoro, utilizzare una precisa parola: Rinuncia. Il papa nel suo testo, facilmente reperibile, parla di rinuncia. Perché?

Le sue forze erano venute meno, i problemi da gestire erano grossi e molteplici ed egli si sentiva profondamente inadatto a portare avanti questo ministero. Dinnanzi a lui c’erano due possibilità: andare avanti perdendo sempre più le capacità di adempiere al suo servizio oppure rinunciare per lasciare spazio agli altri, certo pur compiendo un atto “grave”(cito ancora termini da lui usati). Che fare?

Un uomo qualunque, uno come me, e come tanti altri di voi, avrebbe continuato (si prega di non fare il paragone con il suo predecessore: erano tempi e situazioni diverse), ma lui, da uomo di grande santità e umiltà, lui no. Ha rinunciato.

Sì, ha rinunciato. Quanto ci fa schifo questa parola. Alla rinuncia noi associamo la codardia, la viltà, e di conseguenza anche l’egoismo. In realtà la rinuncia, almeno un certo tipo di rinuncia, è segno di grande maturità umana e spirituale.

Spesso ci capita di non essere felici. Di fare tanti sforzi per tutti e di ritrovarci senza niente, senza nessuno dei risultati sperati. Dinnanzi a questo fallimento? Stiamo sempre lì a moltiplicare gli sforzi oppure cadiamo nel vortice drammatico della depressione. Non siamo capaci di rinunciare. A cosa? Al nostro egoismo, alla nostra apparenza, al nostro dirci che infondo siamo indistruttibili.

Non siamo capaci di fare un passo indietro, di chiedere scusa a quelle persone che si è ferite, di rimettere un impegno nelle mani di un altro che magari ci può aiutare o forse felicemente sostituire.

Siamo tristemente abituati alla fuga dal problema (aborto, divorzio, eutanasia, ne sono prova eclatante), oppure, all’eccesso opposto, siamo testardamente convinti che ce la faremo (accanimento terapeutico, rifiuto della realtà della morte o della sofferenza, ecc..).

Dovremmo forse imparare l’arte della “rinuncia” che non è un gettare la spugna, ma il riconoscimento del proprio limite che ci apre all’altro. Esatto. Il segreto della felicità sta proprio in questa apertura all’altro. Quante coppie, amicizie, rapporti falliscono perché manca questa importante capacità svuotamento.

Allora il gesto di Benedetto XVI è stato davvero un gesto di grande profezia. Si capisce bene perché egli più volte ha dichiarato di essere ora sereno. Non, come i cattivi hanno insinuato, perché ora fa la bella vita, ma perché ha amato fino infondo la Chiesa, ad essa, e a Cristo, ha aperto tutto il suo cuore, consegnando, con straordinaria umiltà, anche i suoi limiti. Con tale gesto ci ha insegnato che il segreto della felicità, ancorata in Dio, si trova proprio nella capacità di mettere da parte il proprio “io”, forse correndo il rischio di sentirsi dire che si è deboli, falliti, incapaci di svolgere ciò per il quale si era stati chiamati. Ma a chi ha un cuore del genere non importa ciò che gli altri dicono perché non vive nel regno dell’apparenza, ma dell’essenza, cioè di ciò che realmente conta.

Sono passati già cinque anni e la storia ha già dato ampiamente ragione al papa rinunciatario. Il suo mettersi da parte, continuando a lavorare rimanendo “nel recinto di Pietro”, ha permesso alla Chiesa di prendere nuove forze, di avere un nuovo slancio, anche grazie al suo successore, che ha davvero compreso a fondo il gesto di Benedetto XVI.


Forse fare un po’ nostro questo senso di “rinuncia” ci aiuterebbe ad essere figli migliori, genitori migliori, amici migliori. Migliori non perché invincibili, bensì perché autentici. Autentici ed umili nelle nostre fragilità, come in tutte quelle belle capacità che ciascuno custodisce nel proprio cuore.




venerdì 16 febbraio 2018

LA VOLETE LA VERITÀ?

Rubrica di letteratura e poesia.


Se i profeti irrompessero
per le porte della notte,
lo zodiaco dei demoni
come orrida ghirlanda
intorno al capo-
soppesando con le spalle i misteri
dei cieli cadenti e risorgenti
per quelli che da tempo lasciarono l’orrore

Se i profeti irrompessero
per le porte della notte,
accendendo di una luce d’oro
le vie stellari impresse nelle loro mani
per quelli che da tempo affondarono nel sonno

Se i profeti irrompessero
Per le porte della notte,
incidendo ferite di parole
nei campi della consuetudine,
riportando qualcosa di remoto
per il bracciante
che da tempo a sera ha smesso di aspettare

Se i profeti irrompessero
per le porte della notte
e cercassero un orecchio come patria

Orecchio degli uomini
ostruito d’ortica
sapresti ascoltare?

Se la voce dei profeti
soffiasse
nei flauti-ossa dei bambini uccisi,
espirasse
l’aria bruciata da grida di martirio
se costruisse un ponte
con gli spenti sospiri dei vecchi

Orecchio degli uomini
attento alle piccolezze,
sapreste ascoltare?

Se i profeti entrassero sulle ali turbinose dell’eternità
se ti lacerassero l’udito con le parole:
chi di voi vuol fare guerra a un mistero,
chi vuole inventare la morte stellare?

Se i profeti si levassero
nella notte degli uomini
come amanti in cerca del cuore dell’amato,
notte degli uomini
avresti un cuore da donare?
(Nelly SACHS, da” Le stelle si oscurano” )

Questa poesia così enigmatica e piena di simbologia non fa altro che evocare e provocare.
"Evocare", perché tramite delle figure indefinite di profeti apre sconfinate ipotesi di misteri, simboli, stelle ed immagini di eternità e di orrore, quasi come se tali profeti ci invitassero ad andare oltre: oltre i nostri sonni tranquilli, le nostre conoscenze, la nostra vita; quasi come se ci aprissero un sentiero per arrivare alle verità celate: nei cieli, nelle consuetudini...e ancora di più: nelle grida, nei sospiri sofferti, nella storia, in particolar modo nelle stragi della storia. 
"Provocare", perché di fronte a queste ipotesi di profezia e rivelazione, è molto probabile, quasi scontato che l'orecchio dell'uomo rimanga sordo e il suo cuore chiuso. 
Noi uomini, infatti, viviamo sempre alla ricerca di un oltre e nell'attesa di un qualcosa in più che non ci è dato sapere, conoscere e possedere. Così, per riuscire nel nostro intento, ci affidiamo puntualmente ad oroscopi, carte, magie e segni di ogni tipo: ricerchiamo la profondità ma, nel farlo, ci rivestiamo di superficialità.
Eppure, nonostante la nostra continua ricerca affannosa, se davvero si presentassero dei profeti in mezzo a noi, se davvero potessero concederci la possibilità di conoscere il vero, il profondo ed il giusto, sicuramente non saremmo in grado di coglierla, poiché ormai i nostri occhi sono abituati ai falsi, le nostre orecchie alle bugie e le nostre coscienze alle meschinità. Dunque, finché cercheremo la verità nella menzogna che ci sovrasta, l'essenza nelle apparenze che ci ossessionano e la purezza degli intenti nella brutalità delle azioni che ci lasciano indifferenti, non riusciremo mai ad avere cuori da donare e orecchie da prestare a nessuna ipotetica e salvifica profezia d'amore.


SARA FOSFORINO


sabato 10 febbraio 2018

La grande occasione: La delusione!

RUBRICA DI ATTUALITÀ: PENSARE FUORI DALLA RIGHE.



«E’ un vantaggio per tutti che questa ora della delusione circa gli individui e la comunità sopraggiunga quanto prima». Con queste parole il grande D. Bonhoeffer descrive, in vita comune, in maniera quanto mai sorprendente la “delusione”. Solitamente, infatti, essa è vista da tutti come qualcosa da evitare, un’esperienza comunque negativa che porta con sé tanto dolore e che, non poche volte, sfocia anche nella depressione.
Eppure per questo grande pensatore è addirittura un “vantaggio”. Perché?  Per comprendere questa cosa dobbiamo operare una sorta di conversione intellettuale.
In genere quando sperimentiamo una delusione i nostri sentimenti si riassumono in questa frase: «ho dato tanto e non sono stata capito, anzi sono stato contraccambiato con un torto o una irriconoscenza». Questa frase che apparentemente non sembra avere nulla di male in realtà spesse volte diventa come una sorta di veleno che pian piano finisce per far morire chi la pronuncia nel proprio cuore attraverso la depressione, la rassegnazione, il desiderio di non donarsi più, la tristezza e altro ancora.
Dove sta il problema? Nel fatto che ci si è spesi per un altro? Evidentemente no. Il problema è più a fondo.

Spesso noi ci innamoriamo DI UN’IDEA. Spesso appiccichiamo addosso ad una situazione, relazione o persona i nostri desideri, i nostri ideali, i nostri sogni. Inizialmente sembra tutto andare bene perché ideale e realtà sembrano coincidere. Ad un certo punto però, ed è inevitabile, pian piano queste due sembrano allontanarsi sempre di più.
E’ come se ci si aprisse dinnanzi un bivio dal quale poi scaturisce il dramma che non consiste propriamente nell’avere degli ideali.

Dinnanzi a questo bivio abbiamo due possibilità.

1)    La prima corrisponde a quel vantaggio di cui parlava Bonhoeffer. Quando rimani deluso, quando cioè la vita ti dice che il mondo non gira come vorresti tu (e per fortuna aggiungerei), è allora che dinnanzi ti si schiude la possibilità di aprirti al reale e finalmente accoglierlo per come è, sì da poterne prendere il bello, senza chiudere gli occhi sul negativo che comunque rimane.

2)    La seconda via, forse quella più praticata, è quella radicata in una grande presunzione: quella di pensare che la realtà debba corrispondere alle proprie idee. Ciò evidentemente non è possibile perché se essa dovesse ubbidire alle idee di tutti sarebbe una cosa impresentabile più di quanto alle volte, per la cattiveria dell’uomo, già lo è. Questo meccanismo fa sì che si cominci a guardare l’altro con odio. “Mi hai deluso” diventa il ritornello che continuamente viene indirizzato alle persone, paradossalmente alle più vicine, che abitano la nostra quotidianità.

Occorre – dicevamo in apertura – una conversione non priva di sofferenza. Occorre abbandonare quell’infantile modo di vivere per il quale continuamente si vuole piegare la realtà all’ideale. I bambini, quando s’accorgono che i loro desiderata non sono realizzabili, iniziano a piangere e sbattere i piedi sperando che la realtà cambi. L’adulto dinnanzi alla realtà, invece, sa interrogarsi per crescere. Il cristiano poi in questo sa leggere anche la voce di Dio che chiama ad una conversione che non è semplicemente intellettuale, ma spirituale e con questo coinvolge tutta l’esistenza umana.

L’uomo contemporaneo purtroppo, nelle sue sicurezza, nella superbia che deriva dall’idolatria della ragione e delle proprie capacità, spesso possiede l’intima presunzione che la vita debba obbedirgli, in realtà è l’uomo che deve obbedire alla vita. Questa obbedienza consiste propriamente nell’amore, quello vero, quello capace di accogliere la vita, le situazioni, le persone per quello che sono realmente. Non è amore quello che dinnanzi ad una delusione, inizia ad odiare, a provare rabbia, rancore … è quello anzi il segno che si PENSA DI AMARE gli altri, ma in realtà si è innamorati di se stessi. E’ quello il segno dell’urgenza di questa profonda conversione.




sabato 3 febbraio 2018

CI VOGLIONO EROI, NON SUPER-EROI

RUBRICA DI ATTUALITÀ: PENSARE FUORI DALLE RIGHE. 



Non di rado sentiamo dire, e lo abbiamo detto tante volte anche su questo blog, che il mondo non ha bisogno di eroi. Oggi voglio affermare il contrario per offrirvi uno spunto di riflessione che mi è suggerita niente di meno dalla famosa saga di Harry Potter.

Nella celebre storia raccontata dalla Rowling assistiamo ad un lento e graduale cambiamento di scenario: se nei primi tre/quattro libri/film i protagonisti assoluti sono Harry, Hermione e Ron, pian piano negli altri libri si vede una crescente partecipazione degli altri personaggi nella lotta contro il male a tal punto che quello (Neville) che sembrava uno stupido, incapace di sistemarsi anche delle cuffie sulle orecchie, può permettere ad Harry di sconfiggere, nell’ultimo libro, il cattivo Voldemort.

Per spiegare quello che voglio dire vorrei giocare con l’etimologia di “Eroe”. Sebbene questa parola in greco richiami personaggi valorosi, semi-divinità, essa si avvicina anche ad un altro campo semantico. Quello dell’amore. Mi piace immaginare, allora, che l’eroe sia colui che ama e mostra il suo amore con ciò che compie.

Se assumiamo questa sfumatura semantica che, lo ammetto, è arbitraria, capiamo subito l’importanza di tali personaggi. Gesù in questo senso fu un grande eroe, inimitabile, in quanto egli stesso è Amore (come ricorda la prima lettera di Giovanni). In Lui l’amore si è fatto carne.

Qual è il problema? Che spesso, poiché in pochi sono disposti a far diventare il loro amore carne, azioni concrete, visibili, pubbliche (non perché ostentate), quotidiane, queste persone vengono isolate. Si verifica così un processo di osmosi negativo: non è l’amore di queste persone a contagiare gli altri, ma la paura, la rassegnazione o, peggio, l’invidia dei molti a spegnere, accantonare o a sminuire l’amore di queste persone.

Per ritornare ad Harry Potter … quando l’amore di Harry, insieme a quello di pochi altri, convince il ministero della magia che c’è un male da combattere, tutti gli altri diventano eroi e così Harry diventa uno tra gli altri e non più uno sugli altri.

Si capisce bene allora quale sia la differenza tra un eroe (nel senso indicato) e un super-eroe. L’eroe cerca la collaborazione, invita gli altri a collaborare, lavora in questo senso, mentre il super-eroe vuole ergersi al di sopra degli altri per mezzo dei suoi super poteri.

Sì, abbiamo bisogno di questo tipo di eroi perché ogni cuore si accenda e perché ognuno possa essere “eroe del quotidiano”. Del resto impariamo ad amare attraverso le testimonianze di chi ci ha preceduto, di chi ci ha amato.

Quanta tristezza ci sia nell’isolare un eroe, farlo diventare un mito  o, peggio, nel denigralo, a causa di rabbie, rancori o invidie, la storia ce l’ha insegnato. Allo stesso modo la storia ci ha insegnato quanta bellezza si propaga quando un eroe, una persona che ama e sacrifica la propria vita, diventa segno, esempio, incitamento a camminare sulle vie della bellezza, della bontà e del giusto.


D’altronde la Chiesa, che è madre e maestra, quando canonizza una persona, fa proprio questo: indica al mondo persone che hanno fatto diventare l’amore di Dio carne, per mostrare che, se ci sono riusciti loro, ci possono riuscire tutti.


Don Giuseppe Fazio