sabato 28 aprile 2018

SE CONTA SOLO IL RISULTATO IL TRIPLETE NON LO VOGLIO VINCERE NEPPURE IL PROSSIMO ANNO


RUBRICA DI ATTUALITÀ: PENSARE FUORI DALLE RIGHE



Ci sono diverse dimensioni della vita dell’uomo che fotografano lo status di una determinata comunità. Una di queste – è un mio parere – è lo sport. 
Dopo la clamorosa rimonta della Roma che ha eliminato il Barcellona e dopo la scandalosa eliminazione della Juventus, una frase è risuonata a commento di entrambi gli eventi: “Tanto rumore, ma poi questa Champions non la vincono mai”.
Non la vince mai la Juventus che è già rimasta con l’amaro in bocca di diverse finali perse, tanto più non la vince la Roma che tenta un’impresa disperata, complicata adesso dal 5-2 rifilato dal Liverpool la scorsa settimana. Perché ormai “l’importante è vincere” e non partecipare. 

Onestamente, anche se sono un juventino di serie B (perché non seguo sempre lo sport), che la Juve vinca o meno, infondo non mi cambia la vita. Ciò che sinceramente mi preoccupa è che questa visione della vita, che emerge dal modo di vivere lo sport, in realtà è ben percepibile ovunque. 

Conta solo il risultato … sì, è contato solo quello per il ragazzo di Lucca che con la violenza ha provato ad estorcere un sei al professore, il tutto mentre i compagni riprendevano l’ardua impresa con il cellulare. Lo stesso si può dire della povera Giada che, qualche settimana fa, si è suicidata a Napoli. Aveva mentito per mesi, anni, ai familiari prospettando ottimi risultati. Forse, non ce la faceva proprio ad ammettere che, nonostante gli sforzi, il risultato, quel maledetto risultato che è unico a contare, non era dei migliori. È contato solo il risultato per il piccolo Alfie, che voleva vivere, come lo volevano i loro genitori, eppure quel risultato non era accettabile per una medicina che ormai ha rinunciato a curare, se non si elimina definitivamente il problema. Meglio la morte che un’esistenza difficile. 
In una società di efficienticonta solo l’efficienza e quando questa non arriva è meglio procurarsela con metodi pochi ortodossi o, nel peggiore dei casi, farsi da parte perché per i non brillanti qui non c’è spazio. 

Non contano la fatica, il sudore, le lacrime versate se a queste non corrisponde il massimo. Non conta neppure comprendere che abbiamo dei limiti oggettivi e, che per quanto possiamo provare a superarli, in alcune cose, non saremo i migliori come in altre. Non contano neppure più l’amore di un padre e di una madre che – una volta si diceva – per i figli sanno andare oltre tutto. 

Dobbiamo essere sempre al top, sempre i primi, sempre i migliori. È questa l’utopia che ci viene presentata per farci cadere in una disperazione che ci rende, come alcuni vogliono, fragili e manipolabili. 

Se questo è l’andazzo, se questa è la via che abbiamo intrapreso, come comunità, io preferisco andare contromarcia. Personalmente preferisco festeggiare una partita giocata bene, anche senza qualificazione; un secondo posto, ma meritato; una laurea in ritardo, ma con un ottimo cammino di maturazione; una vita che lotta contro la morte anche con tante sofferenze. 

Ricordo bene quello che diceva il mio docente di corpo paolinoin facoltà, quando metteva un voto che oscillava tra il 9.8 e il 9.9. Con un sorriso che snervava i più orgogliosi affermava: “È per la tua umiltà. La prossima volta farai meglio”. 

L’umiltà è ciò che manca a questa nostra società che si crede efficientee invece è proprio deficiente. Sì, nel senso etimologico (de-ficere = mancare di qualcosa), perché una società che manca di umiltà, nella quale conta solo il profitto, è una società che manca di amore. Allora, se questo è l’andazzo, Il triplete io non lo voglio vincere neppure il prossimo anno.


Don Giuseppe Fazio




giovedì 26 aprile 2018

LA COMUNITA' E' SEMPRE COSA BUONA

RUBRICA "IL MONDO INTERROGA LA FEDE- LA FEDE INTERROGA IL MONDO" 

“La parola comunità esala una sensazione piacevole, qualunque cosa tale termine possa significare (…) Le compagnie e le società possono anche essere cattive, la comunità no. La comunità è sempre una cosa buona. (…) La parola comunità evoca tutto ciò di cui sentiamo il bisogno e che ci manca per sentirci fiduciosi, tranquilli e sicuri di noi” scriveva Zygmunt Bauman. 

Definiamo comunità l’insieme di persone unite da rapporti sociali, linguistici, vincoli organizzativi, interessi, costumi ecc. La comunità ideale nasce dalla condivisione di valori comuni o per quanto possibile complementari, da interessi simili che si cerca di tradurre in opere, mettendo insieme le abilità e i doni di ciascuno. L’ideale per la comunità sarebbe la presenza del feeling, di un legame, ili sentirsi in qualche modo uniti spiritualmente agli altri e trasportati verso gli altri, in modo che le anime possano vibrare il più possibile in sintonia. Al di là di quelli che possano essere i doni, le capacità, le competenze di ognuno, è fondamentale condividere una visione comune; ciò rende compatibili oltre le differenze e le particolarità. La comunità unisce oltre le identità, le missioni. Questa è la comunità ideale, abbastanza difficile da sperimentare. Perché in realtà le nostre comunità sono piene di problemi e difficili da reggersi in piedi.
L’elemento di divisione non manca quasi mai, che sia una persona, un’idea, un gesto, una parola, a volte un’interpretazione sbagliata frutto della propria immaginazione e l’equilibrio viene facilmente compromesso. Quando l’elemento di divisione manca lo si cerca ostinatamente, siamo lì pronti a pescare l’errore del fratello per sentirci soddisfatti; ciò purtroppo gratifica più del raggiungimento degli obiettivi comuni. Non riusciamo a guardare verso lo stesso obiettivo insieme, senza schierarci. La comunità/fraternità è un ideale ispirato dal Vangelo. Essa ha come fondamento l’unità e dove c’è unità non c’è bisogno di una caccia al nemico. La comunità/ fraternità ha il compito di unire quanto ci differenzia: le nostre radici, il vissuto, il bagaglio culturale, le tracce caratteriali e implicitamente le nostre imperfezioni, le fragilità ed i nostri limiti dai quali non possiamo mai prescindere. Nel mettere le basi del francescanesimo, il santo serafico ha cercato di imprimere principi di accoglienza e convivenza che abbraccino l’essere umano per intero, desiderando “la comunione più che la comunità, l’ascolto e il dialogo più che l’osservanza delle norme, le relazioni umane più che la formalità e l’amore vicendevole”. Se solo cercassimo di imitare anche solo in parte tutto ciò, i pesi del quotidiano diminuirebbero molto.
Si guarda l’altro come avversario, o quanto meno come colui che può ostacolare la propria affermazione. Possiamo giustificare anche così un mancato progresso o i fallimenti personali, ma il tempo ha la capacità di individuare i problemi reali e chiamarli per nome. Vedere l’altro come avversario è la maniera in cui si nascondono le frustrazioni e le manie di persecuzione. Gli esseri umani, quando si mettono insieme crescono meglio e più veloce, producono frutti migliori. Da soli, in genere, si ha meno possibilità di farcela, si è più infelici.  
Siamo guidati dall’orgoglio e pieni di presunzione e senso di superiorità: di essere più dell’altro, di sapere più dell’altro, di meritare più dell’altro. Non abbiamo la sensibilità di capire quando lasciare perdere qualcosa per il bene di tutti. Così si potrebbe invece uscire dall’ ego, dall’orgoglio per entrare nella sfera del coraggio. Nelle nostre comunità manca l’umiltà di chiedere perdono quando si sbaglia, e ciò rende difficoltoso ripartire nelle relazioni. Manca l’umiltà di ritenerci persone in cammino, non già arrivate, ma che tanto e continuamente hanno da imparare dal fratello; chiunque esso sia porta una esperienza di vita che diventa insegnamento per gli altri. E quando dubitiamo che l’essere umano possa insegnare qualcosa, dovremo ricordare che Gesù ci ha chiesto di imparare qualcosa persino dai gigli dei campi. 

Manca la pazienza e manca la tolleranza. Con troppa facilità si diventa paladini della giustizia, una giustizia che leggiamo a modo proprio. Che poi talvolta non sappiamo nemmeno se si tratti di senso di giustizia o di necessità di sopraffazione o vendetta. Basterebbe guardare l’atteggiamento di Gesù di fronte ad ogni peccatore che incontra. Il fatto che Dio ha assunto la nostra carne, non per i giusti ma per chi è in peccato, facilita a comprendere che la misericordia e l’amore sono il vero salto di qualità. Il Suo atteggiamento non è di condanna verso l’uomo, ma verso la colpa. Non mette mai il peccatore a nudo nella piazza pubblica così come spesso amiamo fare noi nella comunità, nella fraternità, al posto di lavoro, nello spazio virtuale. Anzi, fa in modo che gli accusatori provino vergogna e inizino a guardare seriamente dentro le proprie vite. Il Signore insegna non a sbandierare un bersaglio, né a metterlo in difficoltà, ma concentrarsi a sollevare e ad aiutare concretamente chi sbaglia; insegna a correggere con amore e delicatezza, soffrendo per chi è in errore, non provando soddisfazione, con la consapevolezza che ogni uomo è sacro, e che ogni coscienza è sacra. Ma questo è difficile perché più di ogni altra cosa forse nelle comunità manca l’amore.
Tante sono le mancanze e i limiti che affrontiamo nelle nostre comunità, di qualunque natura esse siano. Ma nonostante ciò, come diceva Bauman, la comunità è sempre cosa buona. Perché nonostante facessimo muro all’amore in tutti i modi possibili, il semplice fatto di trovarci a camminare insieme è segno che dentro di noi, anche nelle forme più velate, desideriamo la comunione e il raggiungimento di ideali che sappiamo, rendono la vita più sostenibile e più felice. Riflette e fa riflettere R. Gibellini sulla Caritas in veritate, l’enciclica della fraternità universale: “La fraternità cristiana traccia anche dei confini, pone una dualità tra Chiesa e non chiesa. Ma "la comunità cristiana fraterna non è contro, bensì a favore del tutto" ed "è chiaro che l'opera di Gesù non mira propriamente alla parte, bensì al tutto, all'unità dell'umanità". La fraternità cristiana non è riducibile a filantropia, non è assimilabile al cosmopolitismo stoico o illuminista, ma è espressione di "vero universalismo", perché è posta "al servizio del tutto", tramite agàpe (amore) e diakonìa (servizio).


Andreea Chiriches Leone




domenica 22 aprile 2018

LA VERITÀ VI FARÀ LIBERI (Gv 8,32). "PAROLA" DI FEDERICA ANGELI!

Rubrica di Attualità: "Pensare fuori dalle righe"


Giorno 19 Aprile nel Tribunale di Roma è stata scritta una pagina importate per quella che è la lotta contro la criminalità organizzata, non solo per Ostia e per Roma, ma per l’Italia intera.

Federica Angeli, giornalista di “La Republica”, unica testimone oculare di un tentato omicidio, è entrata in aula e ha indicato nomi e cognomi di coloro che una sera di qualche anno prima, sotto casa sua ad Ostia, avevano dato vita ad una scena da far invidia al far west.

Al 19 Aprile Federica, insieme a suo marito e ai suoi tre figli, è giunta dopo 1763 di coraggio, di paura e, in un certo senso, anche di poca libertà. Sì, perché quando, anche per fare una passeggiata, devi avvisare la scorta o quando non puoi uscire dal balcone a stendere i panni perché sei diventato un obbiettivo “sensibile”, la libertà viene mutilata. 
Nonostante tutto Federica è andata avanti con convinzione e determinazione: con le sue inchieste giornalistiche nel frattempo aveva fatto venir fuori tutto il malaffare presente ad Ostia, mostrando come in realtà il problema della mafia non sia solo questione dell’estremo sud Italia.

È una pagina storica – dicevo – che si aggiunge ad altre belle pagine di cittadinanza responsabile, di impegno, di difesa dei diritti e della vita, perché nonostante le intimidazioni subite, nonostante la stanchezza e la paura, Federica ha dimostrato a tutta Italia che è possibile rompere quel muro dell’omertà che, mattone dopo mattone, nella nostra bella nazione abbiamo eretto da ormai troppi decenni. 

Nell’intervista, al termine dell’udienza, alla domanda di un suo collega giornalista che le chiedeva come si sentisse ha risposto: “Mi sento libera. Oggi non si può avere paura!”

Una risposta semplice, ma ricca perché ci rimanda immediatamente ad una concezione di libertà ben più profonda dal classico “fare quello che voglio o quello che mi piace”. Ha ragione a dire che si sente libera, lei, perché, come ci ricorda il Vangelo è solo “la verità che ci rende liberi” (Cfr. Gv 8,32). 
Una vita vissuta alla luce del giorno, infatti, rende il cuore libero davanti a se stessi, davanti agli altri e davanti a Dio. Se ciò è vero, vale anche la frase opposta: “la menzogna rende schiavi”. 

Chissà quante volta ci rendiamo schiavi del male a causa della menzogna o dell’omertà che non riusciamo a vincere perché in noi la fa da padrona la paura. 
La paura … Sì, di perdere qualcosa o qualcuno. Chi vive nella verità rischia – non bisogna negarlo – di perdere qualcosa, ma chi vive nella menzogna ha già perso tutto … tutta la bellezza della sua vita. 

Sarebbe bello poter essere un po’ tutti “Federica”. Cioè? Semplici persone normali capaci di gustare la bellezza della verità ogni giorno, ogni momento, in ogni contesto della nostra vita. Perché infondo chi vive nella Verità gode di una protezione più grande; quella cioè del “Buon Pastore”  che spazza via ogni paura con quelle dolci parole che ripete ai nostri cuori: “Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano” (Gv 10,28).

Don Giuseppe Fazio




sabato 14 aprile 2018

PIÙ CONOSCO GLI UOMINI, PIÙ AMO GLI ANIMALI.

RUBRICA DI ATTUALITÀ: PENSARE FUORI DALLE RIGHE 



Non vi nascondo che fin da bambino, pur essendo cresciuto in un ambiente contadino (del quale sono orgoglioso e fiero) e quindi con non pochi animali, quando ascoltavo questa frase avevo sempre un senso di disgusto. 
I miei nonni con la loro vita mi hanno insegnato e testimoniato che si deve grande rispetto al creato e agli animali, ma che essi non sono uomini e dunque devono rimanere al loro posto. E certo loro avevano grande attenzione alla cura dei loro animali perché da essi ne derivava, in tempi non facili, il loro stesso sostentamento.
Crescendo poi ho avuto modo di convincermi che dietro questa frase, che spesso attira l’ammirazione dei più superficiali, ci sia tanta leggerezza. Per almeno tre motivi: 

1)   Chi pronuncia questa frase compie intanto un’ingiustizia duplice: degli uomini fa di tutta l’erba un fascio al negativo solo perché magari ha avuto esperienze affettive poco belle (ci si dovrebbe domandare poi se non è la persona in questione ad essere inavvicinabile peggio di alcuni animali); mentre degli animali compie la stessa operazione in senso opposto ponendo a criterio oggettivo il cane che possiede. Stento a credere che con un bel serpente o un topo il risultato sarebbe lo stesso.  

2)    Più concretamente ciò che intravedo in questa affermazione è una sorta di incapacità di amare. L’animale non ti contraddice mai, ti asseconda purché gli dai da mangiare, e non ha bisogno infondo di poi tante cure. Il pari, invece, ci scomoda, non ci asseconda, ci fa notare ciò che in noi non va bene, non sempre apprezza o capisce i nostri sforzi; ancor di più, alle volte commette degli errori contro di noi. Amare però richiede necessariamente proprio la capacità di accogliere, accettare e magari convertire col silenzio più che con le parole il male che c’è nell’altro. I bambini – si sa – però non accettano che il compagno di merenda si comporti male con loro perciò iniziano a frignare e si dedicano soltanto ai loro giocattoli. 

3)    Andando ancora più a fondo cos’altro si nota? Spesso si odiano gli uomini, soprattutto quelli più vicini (il miglior amico, il marito o la moglie) perché in essi e su d’essi si erano buttati tutti i nostri bisogni di affetto, le nostre ansie, le nostre attese e frustrazioni. Così non di rado accade che quando l’altro ti dice, più o meno verbalmente, che lui non è la soluzione a tutte i tuoi egoismi, probabilmente inizi a pensare che sia lui un egoista. Meglio i cani … loro si che capiscono! Quanto egoismo c’è in questo atteggiamento, quanta infantilità. 

Che ci siano uomini capaci di comportarsi come gli animali, questo è altra cosa. Basterebbe pensare a persone capaci di uccidere bambini con violenze atroci per rendersene conto, ma la violenza di alcuni non determina il valore di tutti. 

Lo ammetto, sarà un mio limite o una mia fobia, ma le persone che ripetono questa frase: “più conosco gli uomini, più amo gli animali”, a me fanno tanta paura e al contempo tanta tristezza. 

Del resto non sono il solo a pensarla così. Il 14 Maggio del 2016, infatti, così si esprimeva papa Francesco:«accade, infatti, che a volte si provi questo sentimento verso gli animali, e si rimanga indifferenti davanti alle sofferenze dei fratelli. Quante volte vediamo gente tanto attaccata ai gatti, ai cani, e poi lasciano seza aiutare il vicino, la vicina che ha bisogno … Così non va». 


Don Giuseppe Fazio









giovedì 5 aprile 2018

NELLE TUE PIAGHE, LE PIAGHE DEL MONDO

RUBRICA "IL MONDO INTERROGA LA FEDE- LA FEDE INTERROGA IL MONDO"


“Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. “Isaia 53, 5
In questo tempo di grazia, mio Signore, il deserto in cui mi inviti a seguirti insegna che il nostro correre ininterrotto per raggiungere traguardi più o meno importanti di cui il nostro tempo sa essere fabbrica inesauribile, il rumore la cui talvolta accidentale assenza ci manda in crisi, la materia alla quale siamo educati a diventare insaziabili non sono affatto indispensabili, specialmente alla vita dello spirito. Il tempo che definiamo quindi “di restrizione” è in realtà tempo di dilatazione, in cui l’anima assetata del suo Dio ha maggiori spunti per attingere alla sua fonte, il pensiero plasmato dall’ascolto della Parola si rischiara, il cuore permeabile all’amore perfetto sradica i vizi e le passioni. Come Te, nel deserto abbiamo modo di affrontare e di allontanare i propri demoni. Quando il cuore cerca luce nella luce di Dio, la quaresima diventa una salita verso la luce della risurrezione.
E’ un viaggio in salita come quello sul Calvario. Lo si percorre sotto la croce, abbracciando le nostre croci quotidiane, piccole o grandi che siano, come hai fatto Tu: non senza paura, non senza soffrire, ma con tanta fede. Nelle Tue piaghe, come Tommaso, il mio cuore riconosce Te, “mio Signore e mio Dio”. Sono piaghe che guariscono, piaghe che parlano della condanna del peccato, piaghe attraverso le quali è diventato possibile ottenere il perdono e la speranza nella vita senza fine. Piaghe mai guarite, che ti provocano tutt’ora dolore: il mondo partorisce incessantemente tanti Giuda, non mancano i soldati, il Caifa, il Pilato di turno; non mancano i tuoi che ti disconoscono quando il vento non è propizio. In tutti loro riconosco me stessa. 
Nelle tue piaghe mai guarite c’è il mondo che soffre. Dalla croce insegni che la salvezza non è passiva. Ogni tanto, da cristiani ci dimentichiamo che non ci si salva badando solo a salvare la propria anima e diventando muti e sordi di fronte alla realtà altrui; pensando magari che il prossimo sia sempre colui al quale vogliamo bene, ma non il povero, lo straniero, colui che in qualche modo ci dà fastidio, colui che con la sua vita dà scandalo; costoro li sfuggiamo, Signore. Ma Tu sei lì, nel grido degli ultimi, in colui che chiede di essere accolto, ascoltato, aiutato, perdonato, nutrito, vestito, riconosciuto, amato. Perché “per mezzo della consolazione con cui noi stessi siamo da Dio consolati, possiamo consolare coloro che si trovano in qualsiasi afflizione.” (2 Corinzi 1,4)
Cristiani per convenienza che non vogliono sporcarsi le mani… abbiamo una reputazione da salvaguardare, non possiamo immischiarci più di tanto. Eppure Tu ci hai salvati buttandoti nella nostra realtà, nella miseria e nella povertà morale e spirituale. Nessuno può aiutare una persona che annega restando sulla riva e fornendo indicazioni precise, o salvare qualcuno dalle fiamme chiedendo al coinvolto di uscirne, egli continuando però a restarne fuori, in salvo. Sulla croce hai insegnato che per salvare, per riscattare c’è bisogno di immergersi, di vivere il tormento di chi in bisogno, gettarsi tra le onde, nella realtà che lo intrappola e farlo arrivare in superficie attraverso la nostra forza, la nostra esperienza, attraverso l’empatia; come hai fatto Tu, fino a donare la propria vita. Diversamente non potremo mai individuare Te nel prossimo, metterci al Tuo servizio da spettatori, per quanto fossimo volenterosi e bravi a dare le indicazioni. E non c’è via alternativa per incontrarti, mio Signore, se non immergendoci nelle Tue piaghe, nelle piaghe del mondo; la meditazione, la penitenza, per quanto profonde e assidue, permettono anche di arrivare ad un importante conoscenza di Dio; non concedono di sperimentare però la conoscenza del volto del Figlio, tanto impresso nel volto del mondo quanto nel velo di Veronica. Tu, che nel Getsemani hai conosciuto l’abbandono dei tuoi, aiutami a colmare la Tua solitudine nella solitudine di chi affronta prove che sembrano insuperabili; nella solitudine di chi porta addosso le colpe altrui, in aggressioni di ogni genere le cui vittime si sentono spesso più sporche dei loro carnefici, due volte vittime. Anche quando nessuno sa e nessuno vede, Tu che hai conosciuto l’umiliazione, sei lì con loro, mio Signore. Condannato senza colpa, spronami a non tacere mai l’ingiustizia dell’indifeso, dilagando anch’io l’indifferenza quando, come Caino, qualche volta vigliaccamente possa pensare di non essere responsabile della vita del fratello. 
Che l’incontro con l’altro diventi l’incontro con Te, mio Signore, come avvenne con San Francesco mentre baciò il lebbroso. Fa che le mie mani non temano di toccare, di accarezzare con amore, di baciare le tue piaghe nel volto del mondo, nel dolore che plasma i cuori che ti appartengono. Piaghe sempre aperte in Te, “legno verde” in cui posso oggi provare a innestare un cuore nuovo; riempi questo cuore d’amore, affinché la mia vita sia trasformata nel servizio; affinché sia santificata attraverso l’incontro con il prossimo, nelle Tue piaghe, nelle piaghe del mondo.


Andreea Chiriches Leone