giovedì 26 aprile 2018

LA COMUNITA' E' SEMPRE COSA BUONA

RUBRICA "IL MONDO INTERROGA LA FEDE- LA FEDE INTERROGA IL MONDO" 

“La parola comunità esala una sensazione piacevole, qualunque cosa tale termine possa significare (…) Le compagnie e le società possono anche essere cattive, la comunità no. La comunità è sempre una cosa buona. (…) La parola comunità evoca tutto ciò di cui sentiamo il bisogno e che ci manca per sentirci fiduciosi, tranquilli e sicuri di noi” scriveva Zygmunt Bauman. 

Definiamo comunità l’insieme di persone unite da rapporti sociali, linguistici, vincoli organizzativi, interessi, costumi ecc. La comunità ideale nasce dalla condivisione di valori comuni o per quanto possibile complementari, da interessi simili che si cerca di tradurre in opere, mettendo insieme le abilità e i doni di ciascuno. L’ideale per la comunità sarebbe la presenza del feeling, di un legame, ili sentirsi in qualche modo uniti spiritualmente agli altri e trasportati verso gli altri, in modo che le anime possano vibrare il più possibile in sintonia. Al di là di quelli che possano essere i doni, le capacità, le competenze di ognuno, è fondamentale condividere una visione comune; ciò rende compatibili oltre le differenze e le particolarità. La comunità unisce oltre le identità, le missioni. Questa è la comunità ideale, abbastanza difficile da sperimentare. Perché in realtà le nostre comunità sono piene di problemi e difficili da reggersi in piedi.
L’elemento di divisione non manca quasi mai, che sia una persona, un’idea, un gesto, una parola, a volte un’interpretazione sbagliata frutto della propria immaginazione e l’equilibrio viene facilmente compromesso. Quando l’elemento di divisione manca lo si cerca ostinatamente, siamo lì pronti a pescare l’errore del fratello per sentirci soddisfatti; ciò purtroppo gratifica più del raggiungimento degli obiettivi comuni. Non riusciamo a guardare verso lo stesso obiettivo insieme, senza schierarci. La comunità/fraternità è un ideale ispirato dal Vangelo. Essa ha come fondamento l’unità e dove c’è unità non c’è bisogno di una caccia al nemico. La comunità/ fraternità ha il compito di unire quanto ci differenzia: le nostre radici, il vissuto, il bagaglio culturale, le tracce caratteriali e implicitamente le nostre imperfezioni, le fragilità ed i nostri limiti dai quali non possiamo mai prescindere. Nel mettere le basi del francescanesimo, il santo serafico ha cercato di imprimere principi di accoglienza e convivenza che abbraccino l’essere umano per intero, desiderando “la comunione più che la comunità, l’ascolto e il dialogo più che l’osservanza delle norme, le relazioni umane più che la formalità e l’amore vicendevole”. Se solo cercassimo di imitare anche solo in parte tutto ciò, i pesi del quotidiano diminuirebbero molto.
Si guarda l’altro come avversario, o quanto meno come colui che può ostacolare la propria affermazione. Possiamo giustificare anche così un mancato progresso o i fallimenti personali, ma il tempo ha la capacità di individuare i problemi reali e chiamarli per nome. Vedere l’altro come avversario è la maniera in cui si nascondono le frustrazioni e le manie di persecuzione. Gli esseri umani, quando si mettono insieme crescono meglio e più veloce, producono frutti migliori. Da soli, in genere, si ha meno possibilità di farcela, si è più infelici.  
Siamo guidati dall’orgoglio e pieni di presunzione e senso di superiorità: di essere più dell’altro, di sapere più dell’altro, di meritare più dell’altro. Non abbiamo la sensibilità di capire quando lasciare perdere qualcosa per il bene di tutti. Così si potrebbe invece uscire dall’ ego, dall’orgoglio per entrare nella sfera del coraggio. Nelle nostre comunità manca l’umiltà di chiedere perdono quando si sbaglia, e ciò rende difficoltoso ripartire nelle relazioni. Manca l’umiltà di ritenerci persone in cammino, non già arrivate, ma che tanto e continuamente hanno da imparare dal fratello; chiunque esso sia porta una esperienza di vita che diventa insegnamento per gli altri. E quando dubitiamo che l’essere umano possa insegnare qualcosa, dovremo ricordare che Gesù ci ha chiesto di imparare qualcosa persino dai gigli dei campi. 

Manca la pazienza e manca la tolleranza. Con troppa facilità si diventa paladini della giustizia, una giustizia che leggiamo a modo proprio. Che poi talvolta non sappiamo nemmeno se si tratti di senso di giustizia o di necessità di sopraffazione o vendetta. Basterebbe guardare l’atteggiamento di Gesù di fronte ad ogni peccatore che incontra. Il fatto che Dio ha assunto la nostra carne, non per i giusti ma per chi è in peccato, facilita a comprendere che la misericordia e l’amore sono il vero salto di qualità. Il Suo atteggiamento non è di condanna verso l’uomo, ma verso la colpa. Non mette mai il peccatore a nudo nella piazza pubblica così come spesso amiamo fare noi nella comunità, nella fraternità, al posto di lavoro, nello spazio virtuale. Anzi, fa in modo che gli accusatori provino vergogna e inizino a guardare seriamente dentro le proprie vite. Il Signore insegna non a sbandierare un bersaglio, né a metterlo in difficoltà, ma concentrarsi a sollevare e ad aiutare concretamente chi sbaglia; insegna a correggere con amore e delicatezza, soffrendo per chi è in errore, non provando soddisfazione, con la consapevolezza che ogni uomo è sacro, e che ogni coscienza è sacra. Ma questo è difficile perché più di ogni altra cosa forse nelle comunità manca l’amore.
Tante sono le mancanze e i limiti che affrontiamo nelle nostre comunità, di qualunque natura esse siano. Ma nonostante ciò, come diceva Bauman, la comunità è sempre cosa buona. Perché nonostante facessimo muro all’amore in tutti i modi possibili, il semplice fatto di trovarci a camminare insieme è segno che dentro di noi, anche nelle forme più velate, desideriamo la comunione e il raggiungimento di ideali che sappiamo, rendono la vita più sostenibile e più felice. Riflette e fa riflettere R. Gibellini sulla Caritas in veritate, l’enciclica della fraternità universale: “La fraternità cristiana traccia anche dei confini, pone una dualità tra Chiesa e non chiesa. Ma "la comunità cristiana fraterna non è contro, bensì a favore del tutto" ed "è chiaro che l'opera di Gesù non mira propriamente alla parte, bensì al tutto, all'unità dell'umanità". La fraternità cristiana non è riducibile a filantropia, non è assimilabile al cosmopolitismo stoico o illuminista, ma è espressione di "vero universalismo", perché è posta "al servizio del tutto", tramite agàpe (amore) e diakonìa (servizio).


Andreea Chiriches Leone




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