venerdì 21 settembre 2018

CROCIFISSI SUL MARCIAPIEDE

RUBRICA "IL MONDO INTERROGA LA FEDE- LA FEDE INTERROGA IL MONDO"




Una sera verso la fine di luglio Padre Bogdan ci chiama per andare a preparare il cibo per i senzatetto nella “Città della Carità”. Mi dice che lo porterà poi in strada insieme ad un gruppo di giovani che vengono a posta da lontano. Siamo felicissimi lo stesso, meglio così, come in tutte le cose ci vuole la gradualità. Non so preparare la minestra rumena di cui mi parlava, me l’ha sempre preparata mamma. Ma non conta, ci saranno altri volontari e imparerò lì. Desidero conoscere questa realtà da sempre e non posso mettere davanti i miei limiti proprio ora. Guardiamo fuori dal finestrino della macchina i contrasti che si mostrano così forti, e sia io che Adelmo abbiamo un nodo in gola. Attraversiamo i quartieri malfamati di Bucarest. Questa zona che mostra forti disagi convive silenziosamente accanto alle altre, bellissime, che frequentiamo abitualmente. Fa male questo passaggio così repentino da una realtà a questa che conoscevamo solo per sentito dire. Dopo circa quaranta minuti arriviamo nel convento di Padre Bogdan. Con uno spirito molto pratico ci fa strada in cucina e ci mostra il da fare dopo averci presentato altri due volontari del posto. Il convento sembra un piccolo palazzo comunista; i frati vivono in maniera molto rudimentale, di elemosina. E’ tutto organizzato per l’assistenza dei più poveri. A Bucarest ce ne sono tanti, ci dice; qualcuno lo incontriamo pure noi rannicchiato su qualche panchina nei parchi, o sui cartoni agli angoli dei palazzi o delle strade. Questione di attimi perché in genere voltiamo subito la testa dall’altra parte. Non solo per evitare l’imbarazzo, ma anche perché vedere il loro disagio provoca una rivoluzione interiore, mette in crisi, una sofferenza che così allontaniamo subito. Come lo struzzo che affonda la testa nella sabbia per far scomparire il senso di pericolo.
Ritorniamo qualche sera dopo. Padre Bogdan ci dice che ora a preparare la minestra di pollo saremo solo noi. Faccio fede sulla memoria di Adelmo che ricorda bene i passi, ma per non sbagliare confronto qualche ricetta in rete. Desidero tanto che mangino del buon cibo, anche se per sfortuna loro stasera tocca a due apprendisti. E’ bella l’atmosfera lì dentro, un po’ come se quel perimetro fosse sacro, un mondo diverso dal nostro. Oltrepassi il cancello e smetti di essere ciò che sei, è come se ti spogliassi di tutto per diventare simile a coloro che incontrerai. Un mondo in cui non si bada a se stessi ma agli altri, a servire gli ultimi; un mondo in cui i problemi personali diventano piccoli se non scompaiono del tutto, e tutto ciò che lo mette in moto è il bene dell’altro. Terra santa. Oppure santificata. Tutto scorre bene e la pentola è pronta. Insieme a Padre Bogdan prepariamo le casseruole. Ne sono uscite fuori una sessantina. Ci chiede se vogliamo mangiare qualcosa. L’emozione che ci abita ha chiuso l’appetito. Chiedo a Bogdan di prendere lui un po’ di minestra dato che faremo tardi. Declina, preferisce lasciare tutto per i poveri. Vive per loro. Lo vedo nella cura e nell’amore con le quali pensa a tutto nonostante lo facesse da anni. Prendiamo anche i pani che spezzeremo per strada, carichiamo il tutto in macchina e ci avviamo verso la Stazione Centrale, Gara de Nord. Lungo il tragitto Bogdan ci prepara un po’ raccontandoci ciò che a breve vedremo. Le storie quotidiane di quelle tante persone delle quali lui conosce tutto: vissuto, abitudini, ritmi, nomi. Ci parla dei bambini che vivono nei canali, di coloro che si iniettano con il veleno per i topi, per non sentire più fame, per dimenticare di vivere, delle associazioni che portano loro non cibo ma aghi sterili, per cercare di limitare così la diffusione dell’AIDS e dell’epatite. "Potrebbero esserci anche le prostitute, ci dice. Qualcuno mormora che portiamo loro del cibo. Ma noi non siamo qui per giudicare. Siamo qui per aiutare tutti, per chiunque ha fame." Parcheggiamo e ci incamminiamo a piedi per la zona della stazione. Appena poggiate per terra le borse, escono da tutte le parti. Volti allegri, volti sui quali si legge la disperazione, mani tese, voci che chiedevano… tutto si mescolava così velocemente… Qualcuno che ha avuto la fortuna di mangiare qualcosa durante il giorno lascia il pasto a chi è più affamato. Alcuni volti sono rimasti impressi. La signora seduta sul muretto con lo sguardo perso, in evidente stato depressivo che non vuole mangiare. Come altri dei quali ci raccontava Bogdan, vorrebbe morire e presto. La ragazzina che ripeteva “Per mia mamma! La prego, per mia mamma!” preoccupata che non ci sarebbe rimasta una porzione per lei. Il giovane disabile che appena ci ha visti arrivare ha fatto festa saltellando e strofinandosi le mani in attesa di prendere la sua minestra. Il coro che chiedeva a Bogdan: “Ma domani verrai? Vieni anche domani!” Bogdan fa un cenno positivo con la testa, non dice di sì. Non sa di certo se verrà. Dipende dalla Provvidenza. Se ci saranno volontari e se qualcuno porterà qualcosa per poter cucinare. Ma la Provvidenza, dice Lui, non manca mai. E infine lui, l’anziano sdraiato a terra su un cartone dietro la pensilina della fermata del bus, sulla strada principale. Sul cemento ancora bollente che rilascia tutto il calore della torrida giornata di agosto. Ha gli occhi lucidi, la voce spenta e una tosse catarrale. Un piede è mangiato dai topi perché la sera prima un altro senzatetto si è rubato le sue scarpe. Se con gli altri ero riuscita a sorridere o scherzare, di fronte a lui mi sforzo per non piangere. Anche le disgrazie hanno il loro “troppo”. Cristo crocifisso su un marciapiede. Silenzioso e conciliato come il Cristo sul Golgota. Finiti i sessanta pasti dobbiamo rientrare. Sul tragitto verso casa, come non mai, restiamo in silenzio. Ogni fine giornata di questi due mesi e mezzo che viviamo qui, è segnato dalla condivisone delle varie esperienze che il Signore ci concede di vivere: ciò che ci ha segnato, ciò che è andato bene. O male. Ciò che rifaremo allo stesso modo. O con spirito diverso. Questa volta sia io che Adelmo abbiamo sentito la necessità del silenzio.
E’ martedì, giorno in cui gli amici della strada si recano presso il convento per il pranzo, per la doccia settimanale, per il taglio dei cappelli, il cambio dei vestiti e per i medicinali. Arriviamo presto ma qualcuno è già lì. Si sentono a casa, come chiunque oltrepassa quel cancello. I volontari sono già a buon punto, restano piccole cose da fare. Con Adelmo serviamo ai tavoli. Sono circa un centinaio. Qualcuno lo conosciamo già, e mentre mangiano abbiamo modo di conoscere altri, di parlare, anche di ridere. Per loro è giorno di festa. C’è chi è più animato, mentre altri stanno in silenzio e scelgono posti più appartati. Sono coloro che vivono con disagio e molta difficoltà la propria condizione. Alcuni con vergogna. Altri con rabbia. Mentre salgo nella stanza nella quale si sono messi in fila per le docce, una signora anziana di etnia rrom mi ferma e mi dona la benedizione del Signore augurandomi vita lunga nella quale però, dice lei, dovrò fare spesso questo. Ringrazio e sorrido anche con il cuore, perché questo sì che è un bell’augurio. Padre Bogdan mi chiede di sistemare i vestiti e di aiutarli a trovarsi un cambio. Accanto a me un frate taglia loro i capelli e la barba. Lo fa con pazienza e attenzione, come un parrucchiere che non vuole perdere i clienti. Parla con loro e chiede sempre se il taglio è gradito. Che bello vedere persone capaci di trattare tutti allo stesso modo, di avere riverenza per i più poveri così come per i potenti… Uno di loro si offre ad aiutarmi a piegare i panni, e dopo un po’ un altro fa la stessa cosa. Si mettono all’opera di spontanea volontà e lo fanno con entusiasmo nonostante il caldo che si sente sempre più forte, quasi dispiaciuti quando abbiamo finito. Tra di loro c’è anche qualche ex carcerato, persone con un vissuto forte, con una vita che in teoria li ha inaspriti togliendo loro la tenerezza. Nonostante ciò sono capaci di gesti di affetto, sorridono, ringraziano. Alla fine della mattinata un ragazzo molto esile e con una leggera disabilità si avvicina e mi dice scandendo le parole con un tono molto deciso e fiero: “Sappi che se avrai bisogno di me io ci sarò! Basta che chiedi di me ed io ci sarò!
“E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo.” Non ho mai compreso quanto ora le parole di Francesco. E’ questa la Bucarest che portiamo nel cuore. E’ fatta di volti come quello di Bogdan e dei suoi frati, dei volontari, di coloro che non hanno niente se non Dio. E dei tanti crocifissi del nostro tempo verso i quali basta stendere la mano per sentire le piaghe. E di un Dio che si fa presente anche così, in un sorriso, in una parola, in un piatto di minestra calda.




Andreea Chiriches Leone





sabato 1 settembre 2018

NE ABBIAMO LE TASCHE PIENE ...


Rubrica di Attualità: Pensare fuori dalle righe.




Mi scuserete se questa volta il mio s-ragionare urterà la vostra sensibilità non per i contenuti, ma per la banalità del discorso. Se leggendomi vi sentirete urtati per le ovvietà che sto per elencare, abbiate pazienza, mi sento così confuso. 

Partiamo dalle parole che sono mesi che sento dire: “Questi qui (i nostri fratelli immigrati) li accolga la Chiesa se proprio ci tiene all’accoglienza”. Che queste parole siano frutto di ignoranza e di superficialità basterebbe poco per dimostrarlo. Per esempio si potrebbero contare le cooperative nate in seno alle parrocchie o alle associazioni cattoliche per mostrare che l’accoglienza la Chiesa non la fa a parole, ma la vive. Si potrebbe vedere il lavoro svolto dalla Caritas (nazionale e diocesana) negli ultimi anni e non solo economicamente, ma anche e soprattutto umanamente, ma andiamo oltre …

È di questi giorni la notizia che la Conferenza Episcopale Italiana ha deciso di accogliere 100 immigrati che sono stati sistemati, proprio in queste ore, presso una struttura della stessa conferenza sita in Rocca di Papa. All’arrivo degli ospiti sembrava di vedere una scena dell’esodo: Un mare di persone diviso a destra e a sinistra, mentre in mezzo transitavano i due pullman. 
Da un lato degli uomini e delle donne che, come me, ritengono ovvio dare il benvenuto a persone che hanno sofferto l’inimmaginabile. Ho ancora impressi negli occhi i volti di alcuni immigrati minorenni che, qualche settimana fa, ho potuto incontrare insieme ai ragazzi scout del clan con il quale ho condiviso la strada quest’anno. Sono dell’idea che alcune cose un conto è sentirle in televisione, altro è sentirsele raccontare dai diretti interessati, incrociando i loro sguardi segnati dalla sofferenza, ma non inquinati dall’odio; quell’odio che, invece, tante volte gratuitamente dispensiamo noi. 
Dall’altro lato – scusatemi il francese – una manica di ignoranti neo fascisti. Ora qui il punto non è: accoglienza sì, accoglienza no. Non si tratta nemmeno del diritto di dissentire pubblicamente, il quale è sancito e garantito dalla nostra costituzione. 

La questione è un’altra. Sto per consegnarvi una grande perla di saggezza frutto di tante riflessioni e di tanto studio: a casa mia faccio entrare chi voglio. 
Eh si … e va bene fin quando: “con i soldi comuni prima gli italiani” (tolleriamo l’ignoranza di chi non sa che con quei famosi soldi per gli immigrati abbiamo salvato piccoli hotel destinati a chiudere, abbiamo assunto giovani psicologi, assistenti sociali, operatori, e altri professionisti che diversamente a quest’ora sarebbero ancora disoccupati); può essere comprensibile anche: “ho paura perché poi se vivono in mezzo alla strada chissà che vita fanno e che combinano” (anche qui tolleriamo l’ignoranza di chi non si rende conto che i reati peggiori li combinano gli italiani, ma di quelli non si deve avere paura, anzi meglio se sono amici così mi fanno qualche favore). Il punto è che qui si arriva a dire alla C.E.I. che non deve accogliere nelle sue strutture degli immigrati. Questo mi pare un po’ troppo! 

Come mi pare troppo e troppo evidente l’odio che sta generando questa politica cieca e populista. Gruppi estremisti che alzano la testa, che inneggiano “alla propria razza”. Il clima mi sembra proprio quello studiato sui libri di storia, quello che anticipò la seconda guerra mondiale. 

Scusatemi per l’ovvietà – lo ripeto – ma davvero ne abbiamo le tasche (e non solo le tasche) piene dell’ignoranza di molti e dell’arroganza di taluni che si atteggiano a ministri, ma che di “ministero” forse non hanno la ben che minima idea. Perché il servizio si svolge anzitutto nell’umiltà. E, Forse, sarebbe ora che la nostra politica, come i nostri ragionamenti, dovrebbero recuperare questa virtù da troppo tempo messa da parte! 



Don Giuseppe Fazio