sabato 26 settembre 2020

OMICIDI: C’È UN FILO ROSSO

RUBRICA DI ATTUALITÀ


"Pensare fuori dalle Righe"





 

“C’è un filo rosso”. Qualche sera fa, ha commentato così don Ciotti gli omicidi di queste ultime settimane: quello di don Roberto, quello di MariaPaola, di Willy. E diceva: “il filo rosso è l’amore”. L’amore del sacerdote per gli ultimi, l’amore di quella ragazza per la sua compagna, l’amore di un ragazzo che non riesce a digerire una violenza gratuita.

 

Ma c’è un altro filo rosso che accomuna tutti questi omicidi e molti altri, come quello a cui abbiamo assistito sbigottiti a Belvedere sempre qualche settimana fa. C’è un altro filo rosso che fingiamo di non vedere.

Dinanzi alla crescente espressione di violenza non si può sempre tutto anestetizzare con una patina di sentimento (non era questo l’intento di don Ciotti!). Non si può perché l’amore chiede sempre verità.

 




E allora questi omicidi hanno un altro triste filo rosso: il vuoto esistenziale che sta mangiando le nostre relazioni.

 

Don Roberto è stato ucciso da un immigrato che è fuggito da una terra che, per decenni, è stata impoverita da noi occidentali; MariaPaola è stata uccisa da una mentalità tipicamente mafiosa: o mi obbedisci o ti sottometto con la violenza; lo stesso – anche se con sfumature diverse – si più dire di Willy. Anelya, invece, è stata uccisa (probabilmente, ancora non ne abbiamo certezza!) dalla necessità di racimolare qualche spicciolo chissà per cosa: droga, debiti, ludopatia? Non lo sappiamo.

 

Di fatto sappiamo una cosa: quando un uomo uccide, se non è per legittima difesa, è perché dentro ha un vuoto terribile. Ed è proprio questo vuoto che facciamo finta di non vedere. Ci accontentiamo di individuare colpevoli, magari sentendoci tutti un po’ dei RIS, ma quasi nessuno sente il dovere di farsi questa domanda: perché? 

 

Perché un ragazzo si vede costretto a rubare (e non voglio giustificare il furto)? Perché due giovani si sono abituati così facilmente alla violenza? Perché non possiamo rispettare (magari pur non condividendole) le decisioni sentimentali degli altri?

 

Il filo rosso sta proprio dietro a questa domanda. Una domanda scomoda perché altrimenti dovrebbe portarci a fare tanti passi indietro: magari dovremmo rinunciare a dar in mano ai nostri figli i cellulari fin da bambini tramite i quali si abituano alla violenza, presentata sotto tante forme; magari dovremmo sentirci un po’ in colpa perché nei nostri bar ci sono tante “macchinette” che indebitano famiglie intere, portandole alla disperazione; magari dovremmo sentirci in colpa per le tante imprese italiane che sfruttano il sottosuolo o la mano d’opera africana affinché noi possiamo vestire e stare bene a basso prezzo; forse dovremmo sentirci anche in colpa perché conosciamo nomi e cognomi dei venditori di droga che serenamente oramai nelle nostre piazze e sotto i nostri balconi vediamo senza avere il coraggio di denunciare.

 

Forse dovremmo anche chiederci: come mi impegno perché il mio fratello sia meno povero? Dovremmo anche chiederci quale cultura veicolo con le mie parole, i miei gesti, le mie decisioni: violenza o pace? O ancora: come educo i miei figli? 

 

Dovremmo fare tanti passi indietro che di fatto – ammettiamolo – proprio non abbiamo voglia di fare.

 

E allora ci accontentiamo … ci accontentiamo di condannare gli altri, di addolcire tutto con una patina di sentimentalismo, ma di guardare in faccia la verità, proprio non ne abbiamo voglia. 

 



Don Giuseppe Fazio

gfazio92@gmail.com