lunedì 28 novembre 2022

Un serata CON Eugenio

 Carissimi fratelli e sorelle, 

 

            intanto consentitemi di ringraziare don Gianfranco, parroco di questa comunità, che molto felicemente ha accolto il desiderio dei ragazzi della banda di celebrare questa eucarestia e anche ha acconsentito con gioia al medesimo desiderio dei ragazzi che fossi io a presiederla. Di questo lo ringrazio personalmente.

 

Ci troviamo all’inizio dell’anno liturgico. Oggi è il primo dell’anno liturgico e siamo qui per pregare per Eugenio, ma direi, soprattutto, con Eugenio. Quando avevamo pensato a questa celebrazione non avevamo previsto che sarebbe caduta nella prima domenica di Avvento. E credo che questo sia un significativo regalo della Provvidenza. 

 

Ecco … quando si comincia un viaggio – e l’anno liturgico lo è  -  ormai tutti siamo abituati a fare una cosa: impostare la meta di arrivo sul gps. Quante volte è capitato di impostare male la meta del gps? Infinite. Oppure che Google non ricevesse giustamente le indicazioni che gli stavi dando; magari per aver frainteso due vie con un nome simile? Avoglia… e ti sei fatto il viaggio tranquillo, sapendo che saresti arrivato in orario e, invece, ad un certo punto … terrore perché ti sei accorto che stavi andando da tutt’altra parte. Dio solo sa quante maledizioni ho inviato a google maps che se anche la metà fossero arrivate a destinazione poveretta la signorina che parla… 

 

Ecco … impostare bene la meta di arrivo. Perché da questo deriva il viaggio, le scelte che farai, le strade che percorrerai. Questo deve essere chiaro in partenza. È proprio per questo motivo che nel primo giorno dell’anno liturgico si parlato della meta di ogni uomo: il cielo 

 

Noi stiamo per iniziare da capo l’avventura di Gesù (Natale, Pasqua, Ascensione, Pentecoste) che cioè nasce, non risolve i problemi di questa terra, non elimina le malattia, le sofferenze, la fame nel mondo, le guerre, ma va al cielo. E se questo non è chiaro dall’inizio il rischio è di essere un po’ come Pietro e Giuda che, poiché ad un certo punto si accorgono che il Signore sta puntando ad un altro obbiettivo, uno ci litiga (Pietro), l’altro lo vende (Giuda).

 

Impostare bene la meta. Domandarsi: dove stai andando? Ti basta mangiare e bere, come ai tempi di Noè? Ti basta che la tua vita sia tutta lì: lavori, mangi, bevi, ti accoppi, ti diverti … tutto qui? Va bene? Il tuo cuore sta davvero desiderando una vita così mediocre? 

 

Io sono felicissimo di essere qui stasera, ma ho anche tanta paura che molti di voi fraintendano il motivo principale per cui siamo qui. Noi non siamo qui per ricordare un amico, per sentire parlare di Eugenio e magari versare qualche lacrima insieme. No, noi siamo qui perché in Eugenio abbiamo visto che cos’è un uomo quando punta al cielo

 

Noi, in Eugenio abbiamo sentito il sapore dell’eternità. E questo sapore lo abbiamo desiderato anche noi. Io ho visto Eugenio nel letto sofferente, morente  (questa è la parola giusta) ridere e scherzare e sapevo quale era il suo segreto. Me lo aveva rivelato: sto cercando di capire cosa Dio mi sta insegnando in questa malattia

 

E cosa gli ha insegnato? Una cosa che in realtà tante volte gli aveva già fatto fare: dimenticarsi di se stessi – il mangiare e il bere sono gli atti di chi pensa al proprio stomaco, a se stesso – per amare gli altri, qualunque cosa ti stia accadendo. In Eugenio noi abbiamo visto la storia di Gesù Cristo ripetersi: il Figlio di Dio che non pensa al suo stomaco, ma parla di un altro cibo e diventa lui stesso cibo.

 

Ah … Dio solo sa in questi due anni quante volte Eugenio è diventato cibo. Io posso testimoniare che la sua storia è diventata cibo tante volte per i bambini del catechismo di Marcellina; per diversi ragazzi che hanno iniziato il cammino delle 10 parole che due volte al mese teniamo a Sangineto, per tanti adulti che ho confessato o che accompagno spiritualmente. 

 

E tutte le volte che ne ho parlato ho visto gli occhietti di questi ragazzi desiderosi anche loro di andare al cielo. Certo … perché in fondo anche il più sicuro di sé che sta qui questa sera, anche il più forte, quello che ancora non ha preso abbastanza sberle dalla vita, sa benissimo che mangiare, bere, accoppiarti e divertirti, prima o poi, ti annoia, ti stufa.

 

Lo aveva capito anche Eugenio. E questo di lui io l’ho capito in ritardo. E una delle cose su cui ritorno spesso. C’è stata una fase della vita in cui Eugenio, come tutti gli adolescenti, pensava a si scialàa si diverta. Poi gli è scattata dentro qualcosa, probabilmente durante la primissima fase della sua malattia, sentiva l’esigenza di qualcosa di più grande.

 

Io che, invece, sono stato sempre molto celebrale – e questo non sempre è un pregio – ho avuto uno stile di vita un po’ diverso da Eugenio e così ci eravamo allontanati. Ho raccontato altre volte che fu lui poi a cercarmi e devo ammettere che all’inizio non gli diedi troppa corda. Fu dopo un concerto qui a Belvedere che lui – quasi mi costrinse – ad uscire insieme. Dovetti annullare anche un altro appuntamento. Sapete bene che quando Eugenio si metteva in testa una cosa non si fermava. 

 

Quella sera capii che lui non stava cercando semplicemente un amico di infanzia, ma un prete. La sua meta stava cambiando velocemente. Chi è stato accanto ad Eugenio fino alla fine – i genitori, le sorelle, il fratello e gli amici – sa bene che non è morto … è sbocciato. Lui ha celebrato Pasqua, ha capito che Dio non ha da aggiustare questa vita, ma ha da dartene una nuova già su questa terra. E lui ha vissuto anche la sua malattia in un modo nuovo, in modo non umano; certo anche con momenti di fragilità, ma in modo nuovo; perché un uomo nella malattia, dinanzi alla morte, si dispera. E noi non abbiamo visto un disperato, un impaurito, un triste, anzi …

 

Ecco … all’inizio di questo anno liturgico in cui dovremmo tutti un po’ reimpostare il gps esistenziale del nostro cuore. Eugenio per noi non è un amico da piangere o ricordare, ma l’ago della bussola che punta a nord o, se volete, la più fastidiosa voce del gps: guagliù adduvi stati jinnu?  ama ji a ca, in cielo.

 

Per voi carissimi ragazzi della banda che avete desiderato, preparato e voluto questo momento; per voi cari genitori e fratelli di Eugenio che patite la sua assenza; e per tutti i presenti sia questa celebrazione la voce di Eugenio, unita a quella di Cristo, che ancora oggi ci ripete: non si vive di solo pane, la felicità nostra non sta nel soddisfare quello che ci piace, ma in qualcosa di molto più grande, nel cielo … che ci sta venendo incontro. 

 

Arriverà il momento in cui arriveremo a destinazione:

 

a)     Per chi ha camminato verso il cielo per tutta la vita sarà una gioia grandissima, sarà arrivare a casa, sarà arrivare in quella felicità che abbiamo desiderato tante volte e che qui abbiamo potuto solo assaggiare;

b)    Per chi invece ha tirato a campare, a mangiare e bere … sarà una delusione, sarà tristezza. Proprio come quando arriva a casa un ladro e tu non lo sapevi.
Io sono sicuro che Eugenio ci aspetta e continua con la sua vita, con il suo sorriso, con la sua preghiera e la sua vicinanza a ripetere: fra cento metri svoltare  in alto, lassa fricà le cose da quattro soldi, e muveti cu cielo è chiu biallu






domenica 6 novembre 2022

Ciao, Mario. Dal cielo ora insegnaci la leggerezza che hai sempre vissuto.

Cara moglie di Mario, 

Cari Genitori, 

Carissimi fratelli e sorelle, amici e parenti di mario,

 

 

            Consentitemi di ringraziare il caro don Vincenzo che ha voluto che io presiedessi questa celebrazione eucaristica. Quando si diventa sacerdoti si pensa alle grandi celebrazioni di festa che si è chiamati a presiedere: matrimoni di amici, battesimi dei loro figli e altro. Difficilmente si mette a conto che arriverà il momento di presiedere la preghiera e prendere la parola in circostanze meno allegre, come questa che oggi viviamo e nella quale preferirei rimanere in silenzio. 

 

          Proprio per questo motivo sento di iniziare questa omelia chiedendovi scusa per le parole che dirò in quanto certamente non saranno adeguate al vostro dolore, al vostro dispiacere, al quale mi accosto come ci si accosterebbe entrando in un santuario.

 

Oggi ci siamo riuniti attorno a questo altare, ancora una volta, per pregare per Mario, ma anche per ascoltare la Parola del Signore l’unica capace, alla fine, di illuminare le tenebre della morte. 

 

Certo lo facciamo con tante domande nel cuore: perché? Perché lui? Perché a questa età? Perché sono sempre i più buoni ad andare? Mario era un buono!

 

Domande che in fondo ci fanno approcciare alla dipartita di questo nostro caro fratello quasi come fosse un’ingiustizia.

            

In realtà, per quanto duro è ammetterlo, la morte non è un’ingiustizia. Fa parte della vita terrena e non c’è un’età giusta per morire. Funziona così per le piante, funziona così per gli animali e funziona così per noi uomini. Da questo non è stato esente nemmeno il Figlio di Dio fatto uomo. 

 

Preoccupati – come ci ha detto la prima lettura – di pensare solo alle cose della terra, la morte ci appare come una cosa ingiusta, come una sorpresa, come qualcosa che non ci dovrebbe essere. In qualche modo pensiamo che sia sempre qualcosa che debba toccare ad altri; a noi il più tardi possibile. 

 

Io di Mario ne conservo un ricordo bellissimo. Fu il primo, insieme ad un altro compagno, ad abbattere le barriere della mia timidezza quando arrivai a san marco. Era un tipo semplice, senza strutture, si presentava così com’era e con quella semplicità ti faceva sentire a casa, ti faceva sentire importante, ben stimato. 

 

In lui non si percepiva il peso della terra, ma la leggerezza del cielo. Portava in sé una leggera comicità di chi non si prendeva troppo sul serio, sapeva ridere dei suoi limiti, anche della sua bassa statura e questo lo rendeva capace di essere simpatico a tutti. Credo non esista una persona che abbia potuto percepire Mario come antipatico.

 

Lui in qualche modo, forse perché la sua salute fin da piccolo gli aveva fatto capire che la vita su questa terra può interrompersi in qualsiasi momento, si portava il cielo dentro. 

 

 

 

Ed è la Parola proprio che abbiamo ricevuto da San Paolo poco fa: la nostra cittadinanza è nei cieli.

 

Tutti quanti noi siamo in cammino verso il cielo. Ce lo dimentichiamo spesso … è un po’ come se fossimo in viaggio per milano e, strada facendo, ce lo dimenticassimo. Arrivati alla meta quasi ci sorprendiamo di esserci, quasi protestiamo perché vorremmo essere ancora al punto di partenza. 

 

Vedete… la morte non è un’ingiustizia. Sprecare questa vita è la vera ingiustizia. 

            

Cos’è più ingiusto una vita bella come quella di Mario? O tanti ragazzi e ragazze che rovinano la loro esistenza in cose banali come l’apparenza, l’alcol, la droga, il sesso? Cos’è più ingiusto una vita breve come quella di Mario o tante vite lunghe, ma mediocri e banali, dedite al potere e al sopruso?

 

Mi ricordo che mai si capacitava, Mario, di queste persone. Tante volte mi chiedeva: “Ma secondo te?” Poi ascoltava quello che avevo da dirgli e concludevamo la conversazione con un sospiro, prima di iniziarlo a prendere in giro e a ridere insieme. 

 

Altre volte, invece, quando nelle assemblee di istituto o in qualche diverbio con i professori non me le tenevo – sono sempre stato un guerrafondaio vestito da angelo – mi si avvicinava con circospezione, manco avesse dovuto spacciare droga, e, guardandosi intorno, mi diceva: hai fatto bene a cantargliele, così impara.

 

Mario, forse senza esserne troppo cosciente, ci ha aperto una finestra sul cielo con la sua semplicità e anche nella sua dipartita, senza troppi congedi, parole o altro, ci ha voluto ricordare che non possiamo tralasciare questa verità fondamentale: o camminiamo verso il cielo o la vita terrena diventa mediocre e brutta.

 

Un po’ come mediocre e brutta è la vita dell’amministratore di cui ci ha parlato il Vangelo che, per paura, accumula, cerca sicurezze e finisce per rubare. Sì, ascoltando le nostre insicurezze tante volte rubiamo vita agli altri. Mario, invece, ne ha donato tanta perché dentro di Lui Dio aveva messo tanta vita.

 

Io non so se sono nella posizione di farlo … ma vi chiederei due cose:

 

1.     Al di là del dolore e, forse anche della rabbia, ringraziate per il dono di aver conosciuto una persona così. Fate prevalere il ringraziamento a Dio per avercelo donato, per avercelo custodito per 31 anni. La morte sembra un’ingiustizia, ma la verità è che la vita non è un diritto. Se oggi soffriamo per la sua partenza è perché Dio prima ce lo ha donato. E mica ce lo meritavamo. Cari genitori, siate orgogliosi e felici di aver avuto un figlio così. Fate prevalere – mi scuso se uso questa parola proprio oggi - la felicità. Così lui vorrebbe.

 

2.     Non sprechiamo la vita ed il ricordo di Mario, non affoghiamo nel dolore quanto di bello ci ha donato. Anzi, trasformiamolo in vita. Facciamo fruttare nel nostro cuore tutto quello che ci ha insegnato. 

 

 

Impariamo a puntare al cielo e forse, come Mario, smetteremo di prenderci troppo sul serio, di pensare di essere più alti di quel che siamo, di essere sempre arrabbiati, nervosi, nevrastenici, impauriti. 

 

Mario dal cielo, casa nostra, oggi ci sorride e ci benedice. Me lo voglio immaginare con quel suo sorriso divertito che ci prende un po’ in giro: ja movitivi, ca tantu ca ata venì. 

 

E noi, anche se con il cuore dolorante, riprendiamo fiduciosi il cammino, acceleriamo il passo verso il cielo, dove ritroveremo Mario e tutti i nostri fratelli che ci hanno preceduto.

 

Sì, li ritroveremo e sarà bellissimo. 




Don Giuseppe Fazio

gfazio92@gmail.com







lunedì 11 luglio 2022

Ciao, Amedeo! Non potevi scegliere un giorno migliore.

  


 

Oggi è 11 Luglio. Un giorno di grande festa per il mio paese. È la solennità di San Benedetto Abate, patrono di Europa e di Cetraro appunto.

 

È un giorno in cui ogni cetrarese autentico ha almeno un pensiero positivo, riesce a guardare tutto in modo diverso, almeno una volta all’anno. Ma l’11 Luglio 2022 sarà ricordato per un altro motivo. Un motivo che mi è stato annunciato da un messaggio laconico, di chi davvero non può avere altre parole per dirlo, perché come fai a dare certe notizie? 

 

“È morto Amedeo Ricucci”. 

 

Chi è Amedeo? Amedeo è conosciuto dai più per essere un “inviato di guerra”, titolo che a lui non piaceva per nulla. È il giornalista rapito dall’ISIS, quello a cui hanno sparato nel corso di alcuni reportage sui fenomeni migratori. Dai più è conosciuto per le sue follie (giornalisti come lui ne esistono davvero pochi!), commentate da alcuni, come sempre, con un “ma chi glielo fa fare”. 

 

Ma la grandezza di Amedeo sta dietro a tutto quello che di lui si poteva vedere.

 

È un uomo capace di prendere a cuore le sorti di una bambina, Nur, incontrata nel deserto con una gamba in cancrena. Non ha perso tempo nel capire il da farsi: bisognava salvarla a costo di perdere la sua stessa vita. Era bello vederlo commuoversi, a distanza di anni, quando ricordava quella ragazza che ora vive e sta bene. 

 

Era un uomo, Amedeo, che, nonostante avesse guardato in faccia la morte da vicino, si ripeteva e ripeteva a chi glielo domandava che, per fare il giornalista, per raccontare la verità, non si poteva rimanere dietro un computer o in una hall di hotel; era, piuttosto, necessario vivere, vedere, sentire la sofferenza delle persone di cui si parlava. Forse sarebbe sorpreso a leggere queste mie parole, ma lui, non credente in continua ricerca, aveva ben capito il principio di incarnazione di quel Dio che ha voluto sentire fin nella carne le nostre sofferenze per redimerle.

 

Aveva il cuore puro Amedeo. Di una purezza impenetrabile, una purezza che non è stata scalfita neppure dai suoi carcerieri, dalla gente che gli ha voluto male, dalla gente che voleva sfruttare il suo dolore per fare notizia e quindi soldi. La sua purezza era la purezza di chi non cercava in nessun modo consensi, applausi o vetrine. Quando tornava in vacanza a Cetraro lo si trovava in mezzo alla strada come uno qualunque. Un tizio tra tanti, accanto ai quali passi senza nemmeno renderti conto chi hai davanti. 

 

Amava in modo viscerale la sua Cetraro nella quale aveva pensato di venire a concludere la sua esistenza terrena. A Cetraro lascia un’eredità inaudita non solo dal punto di vista professionale, ma soprattutto umana. Lui che ha speso la sua esistenza per consegnare immagini e parole – diceva – per provocare reazioni (e tante ne ha provocate nella sua lunga carriera giornalistica), ha insegnato a ciascuno di noi, e continuerà a farlo, che è importante la denuncia del male, anche se quel male non lo si può direttamente fermare.

 

Ricorderò sempre la tua sobrietà, il tuo sorriso, la tua onestà intellettuale. Ricorderò quel pranzo in cui mi facesti tante domande di teologia al termine del quale poi mi dicesti: “Se ti avessimo avuto durante il rapimento ci avrebbero liberato dopo due giorni”. 

 

Ricorderò la tua premura per la tua famiglia, in modo particolare per le tue nipoti.

 

A noi oggi non resta che dirti un grazie semplice, senza orpelli, ma sentito e sincero. 

 

Oggi è l’11 Luglio e sicuramente non è un caso. Oggi ti è venuto a prendere San Benedetto per portarti in quella casa di cui tante volte hai detto “invidio chi ci crede”. 

 

Oggi, caro Amedeo, in qualche modo sono io ad invidiarti perché dopo una vita ricca di bellezza e di altruismo, torni a casa da quel Padre che, senza saperlo, hai incontrato nel volto di tanti poveri, emarginati e sofferenti che in te hanno trovato quella voce che i violenti volevano soffocare. 



Don Giuseppe Fazio



Clicca qui per vedere una intervista video che Amedeo rilasciò ad alcuni ragazzi di Azione Cattolica







 

venerdì 24 giugno 2022

LETTERA A TE CHE HAI SPARATO (E A TE CHE SPARERAI)

Caro fratello, 

 

 

            Non voglio e non posso rassegnarmi all’idea che il sangue schizzato ovunque, mentre i vetri della macchina si infrangevano e il rumore dei proiettili ti rimbombava nelle orecchie, ti sia scivolato addosso e tu sia andato a dormire come nulla fosse. Non posso pensare di te questo, mi rifiuto. 

 

Anche ammettendo la possibilità che tu fossi sotto l’effetto di stupefacenti voglio immaginare che la parte più bella di te, quel segno di luce che il Dio in cui credo imprime in ciascuno di noi, si stia ribellando nel profondo del tuo cuore, proprio in quella intimità che chi ti ha dato l’ordine di sparare non può vedere; quella parte che tu, forse, consideri debole, ma in realtà è la vera forza di ogni uomo. 

 

Credimi se ti dico che verso di te non provo rabbia. Una rabbia che, invece, provo verso quei sindaci che pensano che “il problema è di Cetraro” e non hanno avuto il coraggio di alzare la voce, di fare rete; la stessa rabbia la provo verso quegli altri politici locali che pensano che il problema si possa nascondere parlando di alcolici, super alcolici e musica ad alto volume. Dalla loro bocca non si sente uscire la parola mafia, ‘ndrangheta, agguato. Commemorano Giannino Losardo che fu ammazzato proprio nella stessa modalità con la quale tu hai sparato l’altra sera e di questo grave fatto non hanno il coraggio di dire una parola. Ho rabbia verso quegli amministratori che stanno dietro le fila e che, pur vedendo tutto andare a rotoli, non hanno il coraggio di criticare apertamente, di fare politica, quella bella, quella vera, quella che crea un consenso adulto. In molti devono mantenere il proprio angolo di potere e di asservimento per cui è meglio non creare conflitti interni. 

 

Ho davvero rabbia  verso le istituzioni di ogni ordine e grado e di cui anche io faccio parte. 

 

Tutti questi mi fanno più rabbia della tua violenza perché pare proprio che non vogliano capire che ad un male pubblico si deve rispondere non solo, ma anche in modo pubblico. Pare proprio non si rendano conto che non si può chiedere ai più giovani di essere coerenti e di impegnarsi per il bene se poi questo bene non porta noi in prima persona a metterci la faccia e a perdere qualcosa, magari un po’ di pace, magari un po’ di buona fama, magari un po’ di like.

 

Mi fa rabbia perché i tuoi capi si crogiolano sul fatto che tanto, se si continua così, non cambierà un bel nulla. Constatare che hanno realmente ragione, mi fa una rabbia che non so descriverti. Ma questa rabbia – davvero – non è per te!

 

Ti chiederai perché questo? Perché il carcere mi ha fatto capire tante cose. Spesso dietro ad una persona che preme il grilletto c’è una persona che pensa di non poter più tornare indietro, una persona ferita, una persona cresciuta in un ambiente marcio, o forse una persona alla quale nessuno ha mai dato fiducia … insomma una persona ferita e illusa che, anche a causa della droga, ora è schiavo di se stesso e dei suoi errori.

 

Nel caso in cui, invece, tu fossi stato proprio convinto di quel che facevi e adesso ne sei anche soddisfatto, ancora di più non proverei rabbia nei tuoi confronti, ma tanta pena e dispiacere. Un Uomo che non riesce a riconoscere un male così radicale dentro e intorno a se stesso è assimilabile ad un uomo che con gli occhi completamente rovinati non riesce a distinguere la strada che percorre finendo convintamente in un burrone. 

 

Credimi, caro fratello, che se potessi ti abbraccerei e piangerei con te, con quella parte intima di te che non accetta il tuo modo di vivere da animale. Tra le lacrime ti sussurrerei che tu non sei l’animale che mostri di essere, ma il Figlio di quel Dio che non si stanca mai di guardarti con tenerezza e affetto. Ti supplicherei di tagliere con il male che ti sei messo dentro per guardare al bello che ancora puoi essere. 

 

Ti supplicherei di considerare quel povero uomo che ora lotta tra la vita e la morte sul letto di un ospedale o il dolore dei suoi amici e parenti, i quali spero non faranno seguire a questo atto altra violenza perché – ce lo dobbiamo ricordare sempre – violenza chiama solo violenza. 

 

Potessi solo avere l’opportunità di guardarti in faccia, di incrociare i tuoi occhi, sì, ci proverei ad annunciarti il Vangelo e la misericordia perché il mio Dio non è venuto per la morte del peccatore, ma perché si converta e abbia la vita. 

 

Potessi avere un solo motivo per dirmi che la mia rabbia è immotivata chiederei perdono in ginocchio sui ceci in piena piazza, mi farebbe meno male. Ma temo che difficilmente se ne troverebbe qualcuno.

 

 

 

 Don Giuseppe Fazio







 

 

domenica 19 giugno 2022

Omelia Tenuta nella celebrazione di suffragio del Piccolo Francesco

 Carissimi genitori di Francesco, 

carissimi amici e parenti di Francesco,

cari fratelli e sorelle tutti,

 

 

 

            Consentitemi di salutare anzitutto con particolare affetto don Paolo e di ringraziarlo per la sua presenza e la sua vicinanza a questa comunità che ha servito per tanti anni e che ora vive un momento di forte dolore e anche di confusione per la nascita al cielo di questo nostro fratellino. Grazie a nome della comunità e anche a nome mio personale, averti accanto oggi mi rincuora.


Alla preghiera si unisce anche don Salvatore che, non potendo essere presente fisicamente, mi ha chiesto di manifestare il suo affetto e la sua vicinanza alla famiglia.

 

            Prendo la parola quest’oggi con molta paura e per questo vi chiedo anticipatamente perdono se le mie povere parole non tradurranno nel migliore dei modi quello che Dio, attraverso il piccolo Francesco, oggi vorrebbe dire a ciascuno di voi. 

 

            Mi approccio al dolore dei genitori e di tutti voi con delicatezza e trepidazione, sapendo di entrare in un santuario che per alcuni versi è ben più importante di queste mura dentro alle quali ora siamo raccolti. Un santuario che suggerirebbe di rimanere in silenzio, come lo abbiamo fatto qualche giorno fa quando abbiamo accolto il corpicino di Francesco. 

 

            E tuttavia so che mi si impone il dovere di parlare. Sento mie, infatti, le parole dell'Apostolo Paolo appena proclamate: Fratelli, non vorrei che rimaneste nell'ignoranza circa quelli che dormono perchè non siate tristi come quelli che non hanno speranza!

 

Nella folla di pensieri e di voci che si rincorrono certamente nei nostri cuori in questo momento possiamo ritrovare le parole della folla che si trovava intorno al sepolcro di lazzaro: 

 

“Gesù, il Figlio di Dio, lui che ha guarito ciechi e storpi, non poteva guarire anche Francesco, un bimbo innocente?”

 

O forse quelle altre parole pronunciate dalle sorelle di Lazzaro: “Signore, se tu fossi stato con francesco, con i suoi genitori, lui non sarebbe morto”. 

 

Parole che potrebbero convergere in una sola domanda: Perché, Signore? Perché a lui? Perché non sei intervenuto?

 

È interessante che dinanzi a queste domande il Signore Gesù risponde con un’altra domanda: Non vi ho detto che se crederete vedrete la gloria di Dio?

 

Che Dio è questo che non dà risposte a chi domanda un semplice e lecito perché che potrebbe ora mettere in pace il cuore di questi due genitori? 

 

È un Dio che sa che per una madre e un padre rispondere a questa domanda forse non consegnerebbe affatto alcuna pace, ma aprirebbe altre domande e poi altre ancora entrando in un vortice dal quale difficilmente si potrebbe uscire. La morte, infatti, non è un’esperienza razionale, logica.

 

Tanto più L’esperienza del dolore e della morte di un bambino mette in crisi le nostre convinzioni, la nostra fede, il nostro modo di pensare Dio; anche quello di un prete. E non tanto perché appunto non ne capiamo il motivo, ma perché è faticoso capire cosa Dio abbia da dirci in questa esperienza

 

Me lo hanno insegno altri due ragazzi:  Eugenio, morto anche lui di un tumore a 26 anni, quando nell’ultimissimo periodo della sua vita mi scrisse: Don, ho smesso di chiedermi perché e ho iniziato a chiedermi cosa Dio mi sta insegnando

 

E poi Gabriele, 13 anni anche lui morto per un tumore terribile e dolorosissimo ad una gamba. Lui nel momento in cui i medici, imbarazzati, non riuscirono a dirgli che la sua vita terrena stava finendo, con il sorriso sulle labbra di chi già aveva capito tutto disse parole simili: perché siete tristi? Non sapete che ci rivedremo in cielo? State allegri. 

 

Sì, Signore se crediamo vedremo la gloria di Dio, ma cosa dobbiamo credere in questo momento? Basta dirci un banale: “Francesco è risorto stiamo tranquilli, torniamo a casa a ridere e scherzare?”. No, non può bastare. 

 

E allora con il salmista possiamo gridare tutto il nostro dolore a Dio: Parla, Signore, perché se tu non parli in questo momento di dolore incomprensibile noi siamo come chi scende nella fossa!

 

Ho pregato proprio così mentre l’altro giorno attendevamo il corpo di Francesco. Che cosa hai da dirci? Qual è stata la Parola che ci hai consegnato attraverso la breve esistenza di questo nostro fratellino?

 

Poi una delle zie mi ha raccontato: è stato straziante sapere che il suo cervello, aggredito dal tumore, aveva compromesso tutto il suo corpo, mentre il cuore batteva forte, fino alla fine

 

In quelle parole che mi sono rimaste nel cuore tutto il giorno ho potuto vedere un’altra scena di morte e di vita. Quella di Chiara Corbella Petrillo anche lei nata al cielo a 26 anni, il 13 giugno di qualche anno fa,  per un tumore alla lingua, per altro dopo aver assistito alla precoce morte di ben due dei suoi figli. Anche lei fino all’ultimo minuto ha avuto un cuore accelerato, un cuore che ha saputo amare i cervelli confusi e immobili di chi le stava attorno.


Cosa hanno in comune queste storie di dolore? Il Cuore di Cristo. Il Suo Sacro cuore. Sulla croce anche dopo la morte quel cuore è stato in movimento, fino a svuotarsi tutto quanto nel versare acqua e sangue. 

 

In Francesco Dio ci ha mostrato la soluzione al dolore del mondo: mettere un po’ a freno il cervello e far lavorare un po’ di più il cuore, l’interiorità. Noi che ci crediamo vivi, intelligenti, forti abbiamo troppo spesso un cuore arido, freddo, bloccato. La vita ci scivola tra le mani mentre siamo soffocati da cose razionalmente giuste: il lavoro, il pane, il vestito, i nostri progetti. E il cuore si ferma lentamente, si inaridisce perché ha bisogno sempre di qualcosa di più grande di ciò che è solamente materiale.

 

I nostri cuori si fermano, mentre la nostra testa lavora all’impazzata, arrivando a fare cose folli come folle è il gesto di una madre fuori di sé che accoltella la propria cucciola mentre beve un the davanti alla televisione. 

 

E così mi domando – chiedendovi scusa per la crudeltà di questa domanda – che cosa è più ingiusto? Che si muoia per malattie o per questa aridità di cuore? 

 

Forse noi non arriveremo mai ad accoltellare un bambino, ma tanti genitori, tanti parroci, presi spesso da cose futili accoltelleremo i nostri figli in nome di tanti idoli; tanti cuoricini di bambini che vorrebbero battere all’impazzata saranno e sono bloccati dalla violenza a cui assistono in famiglia: liti impietose, divorzi violenti, assenze ingiustificate di madri e di padri; nelle nostre comunità dove il piacere di qualsiasi genere vale più della vita di chi ci sta accanto. 

 

Francesco per noi oggi diventa l’urlo disperato di un Dio che sta piangendo per noi: fate battere di più il cuore, cercate l’essenziale, mettete in pausa un po’ il cervello. 

 

In Francesco, nella sua malattia, nel coraggio con cui l’ha affrontata, nella sua voglia di vivere si è fatto carne, presente ancora una volta il Signore Gesù Cristo crocifisso. Sicché chiunque abbia conosciuto francesco non po' più dire: Dio dove sei? Lo avete visto, lo avete toccato, ci avete parlato e ora è salito di nuovo al cielo. Proprio come è successo duemila anni fa. 

 

Rimane una domanda straziante: ci chiuderemo nel dolore? Nella disperazione? O la morte di francesco diventerà vita per noi come quel seme che, caduto in terra, sa dare frutto al momento opportuno?

 

È il dramma che si consuma quotidianamente dinanzi alla storia di Cristo: alcuni davanti alla sua croce e morte trovano vita, altri disperazione e non senso. 

 

Cari genitori, 

 

          pur non potendo nemmeno lontanamente immaginare il vostro dolore, vi chiedo con affetto: non lasciatevi bloccare da questa domanda: perché? Non troverete risposta. Abbiate il coraggio di Eugenio, di Gabriele, di Chiara. Chiedetevi cosa Dio vi ha narrato attraverso la storia di vostro figlio e una volta che avrete ascoltato e capito correte come i discepoli di Emmaus a raccontarlo agli altri: a chi proverà il vostro stesso dolore, a chi causerà del dolore ai loro figli; raccontatelo per strada, nella vostra comunità parrocchiale, ai vostri amici, a vostri colleghi di lavoro. 

 

Raccontate loro di quel cuoricino che non si voleva fermare dinanzi ad un cervello fuori uso e potrete contemplare la cosa più bella: attraverso di voi, attraverso francesco tanti cuori saranno sanati, tante lacrime saranno asciugate, tanta disperazione sarà curata, tanti poveri entreranno nella vita eterna. 

 

E potrete realmente accorgervi che Francesco è vivo continua ad operare con il Signore Gesù, con quel di Dio che è realmente sempre con noi, nei nostri cuori anche quando la testa pare paralizzata dal tumore feroce del dolore e della disperazione. 

 

Su questa terra non capirete mai il perché di tanto dolore, ma se lo farete fruttificare potrete dire: ne è valsa la pena; come Maria che ai piedi della croce su cui ha trovato morte l’unico giusto, l’unico innocente, suo figlio, capisce che quel dolore sarà vita per tanti altri e in silenzio lo contempla e lo rende fecondo e così rimane immune dalla disperazione e dalla paura.

 

Siate come Maria, lei è con voi,  è con francesco, è con noi. Ci sostiene, ci incoraggia e ci accompagna!

 

 


Don Giuseppe Fazio







martedì 8 marzo 2022

Ci rivedremo per l'eternità, caro don Sebastiano!

 


Di don Sebastiano potrei raccontare tante cose.  

Potrei parlare di quando da bambino mi accolse come ministrante, di quando, appena entrato in seminario, alla constatazione di un parrocchiano che diceva “che bello, don sebastiano, un altro ragazzo si fa prete”, rispose con la sua proverbiale fermezza e sobrietà “vediamo se ci arriva”; sobrietà che si trasformò in impazienza quando ormai era quasi giunta l'ora della mia ordinazione, ogni volta che tornavo da un colloquio con il vescovo mi domandava: "Allora? Quando sarà?" con la tenerezza che può fare un bimbo impaziente di gustare uno dei suoi piatti preferiti.


Ancora potrei raccontare i momenti di confronto, di sfogo o, forse, quei momenti di comicità che la sua età con il tempo ci ha spontaneamente regalato. 

 

Tanti sono i pensieri e le parole che mi frullano in testa in questo momento, come quando si finisce di leggere un libro che regala storie capaci di toccare le corde più profonde del cuore. Con Don Sebastiano in effetti si chiude un ciclo, quello del parroco più longevo di Cetraro, quella della mia più piccola infanzia parrocchiale, quella di un uomo che ha saputo essere, pur con i suoi limiti, fedeli fino alla fine.  

 

A don Sebastiano mi legava, mi lega, un affetto particolare, modesto, mai eclatante, perché lui non era un tipo cerimonioso, ma sincero, schietto; un affetto che passava attraverso quello sguardo che gli si illuminava ogni volta che ci incontravamo e quel sorriso che gli riempiva il suo piccolo volto chiaro. 

 

Delle sue virtù certamente quelle che rimangono incastonate nel mio giovane cuore presbiterale ce ne sono senz’altro tre:

 

a)     La costanza. Ogni giorno in Chiesa, fino a quando ha potuto. Disponibile ad ascoltare, consigliare, al confronto. Lo si trovava sempre nel suo ufficio e, se non c’era, era in giro a visitare ammalati o famiglie. Senza fronzoli per la testa. Dedito fino in fondo alla comunità parrocchiale.

 

b)    La fedeltà. Al Signore prima di tutto. Preciso come un orologio svizzero lo si trovava al mattino con il breviario in mano, al pomeriggio con la corona del rosario e poi, dopo messa, di nuovo con il breviario. E alla Chiesa. Mai una parola fuori posto contro uno dei tanti vescovi che ha visto passare, contro uno dei suoi predecessori o successori, nonostante avessero stili totalmente diversi dai suoi. Non ha vacillato neppure quando il vescovo gli ha chiesto di lasciare il suo posto da parroco. Sempre obbediente, disponibile. E, quando ancora era in salute, arrivato il suo co-parroco, ha sempre detto “adesso il parroco è lui”. Mai uno sgarbo, una parola fuori posto, anzi disponibile a collaborare anche quando le decisioni pastorali ridisegnavano lo stile della comunità parrocchiale che lui aveva contribuito a formare. 

 

c)     La Schiettezza. Era un uomo trasparente. Gli si leggeva in volto quel che pensava e, se diceva una cosa, potevi stare tranquillo che non v’erano pensieri nascosti o seconde verità. 

 

Non posso dimenticare le parole che volle dire in preparazione alla mia ordinazione diaconale, mentre lui celebrava il suo anniversario di ordinazione sacerdotale: “Se guardo me e penso a te, vedo un sole che tramonta e uno che sorge”. 

 

Non credo che il paragone che generosamente volle formulare possa reggere per davvero, ma spero di poter fare mie almeno un po’ queste tre virtù che mi ha testimoniato con semplicità e nel silenzio. 

 

Non saprei descrivere il mio stato d’animo. Non mi sento triste, ma quasi felice perché so che lui ha compiuto il viaggio della sua esistenza terrena e che ora contemplerà il volto di quel Dio che ha annunciato e testimoniato.

 

Alla fine, sono contento perché, come nel giorno della mia ordinazione, anche adesso dal cielo terrà le sue mani sulla mia testa per proteggermi, illuminarmi e sostenermi nei giorni che il Signore vorrà ancora donarmi di vivere. 

 

Sono contento per averlo conosciuto e, ancor di più, perché sono certo che un giorno rivedrò quegli occhi sorridenti e quello sguardo affettuoso. Ci rivedremo e sarà bellissimo!


Don Giuseppe Fazio