martedì 28 maggio 2019

JE SUIS ITALY: UNA NAZIONE SENZA RADICI (E NON SOLO)

RUBRICA DI OPINIONE
"Agorà: Piazza di discussione"



Dopo mesi di campagna elettorale, manifesti incollati sui muri (talvolta abusivamente), comizi in lungo e in largo, selfie e strette di mano di qua e di là, finalmente si sono concluse le elezioni europee, portando alla luce un 34,3% per i sovranisti della Lega, classificando – dunque - il partito di Matteo Salvini al primo posto del podio. Arrivati sino a questo punto, però, al Ministro dell’Interno tocca abbandonare le divise e aggiustarsi il nodo della cravatta, per convincere Bruxelles sulla famosa legge di bilancio e flat tax da portare in Italia. Rimanendo sempre sul tema economico, in molti desta malumore e rabbia un fenomeno parecchio discusso, su cui si svilupperà il seguente articolo: il plagio del Made in Italy. 
Voglio stendere questo scritto in modo un po’ diverso dal mio solito, meno statistiche e tono giornalistico: voglio scrivere in modo da trasportarvi in questo bellissimo ma al tempo stesso triste viaggio. Iniziamo. 
Immaginate di trovarvi sui marciapiedi della vostra città. Mentre state camminando, passa accanto a voi una donna bellissima. Inutile dire che solitamente, in questi casi, ci si gira e poi si commenta, ma questa volta rimanete immobili; lei vi passa accanto ma non riuscite a girarvi e a dire nemmeno “a”, dinnanzi a quella bellezza idilliaca. Stregati. Vi si muove vicino, lungo il marciapiede, e ad ogni uomo che sfiora gli lascia nell’aria un dolce profumo, accompagnato dalle movenze leggere dei capelli per via del lieve vento. La donna si allontana di un po’, e vi risvegliate, girandovi all’unisono con le altre “vittime” di tale visione. Ormai la figura è sbiadita, ma in lontananza si riesce ad intravedere quel lungo e splendido vestito verde, bianco e rosso che indossava… Tra di voi, però, c’è qualcuno che non si limita ad osservare, ma a pensare malignamente: la donna dai capelli lunghi è troppo bella, desta invidia. Inizia l’inseguimento. La signorina viene bloccata, e man mano privata di tutto ciò che le appartiene… Gli aggressori scappano altrove, e con debolezza la figura femminile cerca di alzarsi. E’ in piedi, ma barcolla. Il problema è che barcollerà per anni…
Bene, in questo breve testo vi ho narrato lei, Italia. Il mio Paese produce i migliori capi vestiari, vantando stilisti invidiati da tutti (Giorgio Armani, Valentino, Gianni Versace, Miuccia Prada, Guccio Gucci e ne potrei elencare un’infinità). Il mio Paese è autore delle auto più belle e ricche di stile (Ferrari, Lamborghini, Maserati). Il mio Paese lavora vini tra i più pregiati al mondo (Valpolicella, Montepulciano, Cannonau, Barolo). Il mio Paese mette a tavola i formaggi e gli insaccati più prelibati che ci siano. Il mio Paese, però, come nel mio piccolo racconto, piace tanto, troppo. Teoricamente sarebbe un bene, è vero, ma il problema è che nella pratica la mia Nazione è stata soggetta a invidie che le hanno portato stupri, violenze e insulti di tutti i generi. La sfortuna dell’Italia è che fino a questo momento non ha mai avuto nessuno che si interessasse realmente a lei, e i primi a farlo sono stati gli italiani stessi. Ci guardano tutto con arroganza, superbia, prepotenza, e invidia. Tutto, dal cibo ai monumenti. Certo, non tutti coloro che vengono in Italia o la osservano dall’estero hanno intenzioni malevole, anzi, la ammirano e la guardano con i cuori agli occhi. Il punto è che i primi a farlo dovrebbero essere gli italiani. Io dico sempre che l’Italia ha tutto ciò che una Nazione possa avere di bello, ma che col passare del tempo si è trovata abitata da gentaglia che ha venduto gran parte dei suoi beni, e che quei pochi rimasti non li apprezza. In rete circolano foto di “Parmesan dolce”, che dovrebbe riprodurre il nostro parmigiano reggiano, foto di “Perisecco”, che dovrebbe riprodurre il noto Prosecco italiano. Ci riderei anche su, un po’ come lo si fa quando si vedono le scarpe Nike contraffate con il nome Kine, ma quando si viene a conoscenza che il mercato della contraffazione del Made In Italy priva il Bel Paese di 32 miliardi di euro annui, beh, c’è poco da ridere. 
Ecco, io spero caldamente che con questa “nuova” Europa il “Prodotto in Italia” venga tutelato maggiormente, favorendo una corretta esportazione e magari, chi lo sa, una piccola crescita del Paese… Sogno troppo? Forse sì, ma desidero una volta per tutte che poesie come “All’Italia” di Leopardi e “L’Italia è ancora come la lasciai” di Goethe non siano più attuali, ma semplici pilastri letterari del passato. 

Aldo Maria Cupello 
aldocupello6@gmail.com




venerdì 24 maggio 2019

UN MORTO NON DIVENTA UN EROE, MA IL GIUDIZIO È DI DIO

RUBRICA DI ATTUALITÀ

"Pensare fuori dalle Righe"



Era il 2016 quando la cittadina di Cetraro balzò agli onori della cronaca per l’assassinio brutale della dottoressa Giordanelli. Una pagina triste del paese che scosse non solo la popolazione locale, ma anche quella nazionale tanto fu il risalto che i media diedero alla notizia. La storia vide poi pian piano emergere dettagli inquietanti: una presunta relazione della sorella (Serena) della dottoressa, moglie del suo assassino (Paolo di Profio), con il figlio del noto boss di Cetraro; le presunte minacce di morte dal carcere di Paolo alla moglie, le intimidazioni ricevute dalla famiglia Giordanelli. 

A distanza di tre anni quella ferita è stata nuovamente toccata. Qualche giorno fa, infatti, è deceduto in carcere l’assassino della dottoressa, nonché suo cognato. Pare si sia trattato di un infarto che non ha dato alcuna possibilità di soccorso.

Non ho voluto condividere su questa pagina le mie riflessioni nell’immediato per non scrivere a caldo, sarei stato troppo impulsivo. Non nascondo, infatti, che, come al solito in queste situazioni, ne ho lette e sentite tante. C’è stato chi ha parlato di Paolo come un buon uomo di cui si è parlato male (quasi) ingiustamente salvo dire che ovviamente il suo gesto è ingiustificabile; chi poi assolutamente lo ha descritto come una bestia, un uomo insensibile, un violento; chi ha partecipato ai funerali come se fosse morto un personaggio pubblico chi, invece, ha ritenuto doveroso non presenziare. Insomma viva la libertà di pensiero!

Onestamente penso che la realtà sia sempre più complessa delle semplici visioni dei singoli, per diversi motivi che vorrei ora qui condividere con voi, seppur brevemente: 

1.        Un omicidio non è un atto grave che riguarda soltanto la vittima, ma la famiglia, il marito, i figli della vittima, gli amici e i conoscenti. Ma non solo, infatti, a soffrire in questi anni son stati anche i genitori di Paolo che hanno dovuto affrontare non solo le conseguenze dell’errore del figlio (vedere un figlio compiere un tale atto non penso che sia piacevole!), ma, forse, anche il peso della vergogna dinanzi a chi si è vista strappare la loro congiunta, il dolore, lo sconforto e lo smarrimento; 

2.        Chi compie un tale atto non è identificato da quell’errore tanto più se si tratta di un solo caso isolato. La vita di Paolo immagino fosse tanto di più. La Chiesa questo lo insegna da quasi due millenni: bisogna distinguere tra peccato e peccatore. Paolo non era un assassino, ma uno che ha compiuto un omicidio chissà per quale motivo reale (anche questo non risulta chiaro agli atti della cronaca). Non sappiamo se si fosse pentito, se in cuor suo portasse la disperazione di un atto che non poteva più essere cancellato. Forse – non ci è dato sapere – il suo cuore non ha retto anche per questo. Forse le cause son state altre.

3.        Infine dovremmo ricordare, soprattutto se battezzati, che il giudizio finale non spetta agli uomini, ma a Dio.


E allora? Come reagire di fronte a questo quadro complesso? Intanto bisognerebbe evitare quelle che a me piace definire “chiacchiere da bar”. Frasi del tipo: “Ha avuto quello che merita” e altre, sono intollerabili. Frasi come: “Poverino in fondo era disperato … lo conosco era un buon uomo, un grande” le ritengo – scusatemi la schiettezza – davvero poco intelligenti. Infatti, rischiano di non rendere giustizia a chi in questa vicenda ha già sofferto tanto oltre che alla stessa dottoressa alla quale è stata tolta la vita. Quando si parla di queste situazioni non si può dimenticare che ci sono vittime di mezzo, gente che ha sofferto e soffre. 

Tuttavia anche frasi come: “Ha avuto quello che si merita” risultano altrettanto fuori luogo. Chi può stabilire fino in fondo cosa meritiamo davvero? Chi ha il potere di leggere fino in fondo all’ultima piega del cuore? Nessuno su questa terra.

E dunque? Quale atteggiamento sarebbe migliore? Probabilmente il silenzio. Un silenzio intelligente, capace di andare a fondo, capace di vedere che, come mi diceva un confratello, all’Addolorata madre della dottoressa, si è aggiunta ora un’altra addolorata, la madre di Paolo. Un silenzio capace di scorgere fino in fondo il dolore che tale vicenda ha provocato. Un silenzio, magari orante per Paolo e Annalisa, come per i figli, per i genitori e per tutti quelli che in questa vicenda son stati coinvolti. Un silenzio che eviti sfilate, protagonismi, discorsi. Quello stesso silenzio che mancò proprio tre anni fa. Perché il silenzio – quando è autentica azione di raccoglimento – diventa grembo fecondo di parole capaci di dare luce, speranza, consolazione. 

Insomma pare che – FORSE – abbiamo sprecato un’ennesima occasione per riflettere … riflettere … per crescere.  Ma è pur sempre vero che non è mai troppo tardi. E allora chissà che questo ultimo atto di questa tragica storia abbia almeno insegnato qualcosa per i giorni a venire. Certo nella speranza – sempre viva – che storie del genere non debbano mai più ripetersi.



Don Giuseppe Fazio
gfazio92@gmail.com











martedì 21 maggio 2019

LEGALIZZARE LE DROGHE: SÌ O NO?


RUBRICA DI OPINIONE

"Agorà: piazza di discussione"



Dal 1° giugno 2018 l’Italia ospita un nuovo governo, capeggiato dall’avvocato Giuseppe Conte affiancato dai vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini. I temi riportati nel famoso contratto del “governo del cambiamento” sono numerosi, ed è di pochi giorni fa l’argomento che suscita di nuovo mal di pancia all’interno delle mura di Palazzo Chigi: legalizzare le sostanze psicoattive leggere, tra queste spicca la marijuana. 
Prima di soffermarci sulla donna tricolore, prendiamo il binocolo e osserviamo oltre lo stretto di Gibilterra, regolandolo su uno dei Paesi che mi ha suscitato più interesse: Colorado, USA; l’osservazione è molto importante, e porgere un occhio di riguardo verso coloro che hanno già confermato determinate riforme può essere istruttivo e di conseguenza fruttuoso. 
Lo Stato del Colorado fu il primo ad elaborare un modello di distribuzione della cannabis medica (2009) per poi sfociare nella legalizzazione per un uso adulto nel 2014; attualmente si possono acquistare dosi prestabilite di marijuana in negozi appositi, con porte aperte per i consumatori dai 21 anni in su. Probabilmente vi starete chiedendo “vabbè, ma sai quante gente riesce ad ottenerla in modo illegale?”, ecco, la verità è che 3/4 della richiesta viene soddisfatta in modo legale da parte dello Stato, e che meno del 20% avviene in modo “proibito”. Sia chiaro, quando si ci imbatte in questi grandi progetti è automatico trovarsi dinnanzi al furbetto malavitoso di turno, ma va considerato anche il lato positivo, ovvero i miliardi che si riescono a guadagnare e dunque il forte colpo dato alla criminalità organizzata. 
L’Italia, infatti, se decidesse di legalizzare le droghe leggere – basandoci sugli incassi del Colorado – avrebbe un introito di circa 10 miliardidi europer uso popolare, 4 miliardiper uso medico, 3.000 tonnellatedi infiorescenzee annesso a ciò 300.000 nuovi posti di lavoro. Ma il discorso non finisce qui, andiamo a vedere cosa succederebbe alle associazioni a delinquere: la mafia certamente non verrà abbattuta legalizzando uno spinello, ma sicuramente subirà un forte colpo allo stomaco. Non penso ci sia qualcuno che preferisca correre il rischio di essere multato, di subirsi ore in caserma, di incontrare lo spacciatore di fiducia, facendo attenzione a non essere visto, quando può benissimo recarsi in negozi che offrono la stessa sostanza (e anche migliore dal punto di vista qualitativo) ma legalmente. Avrete capito che mi piace parlare con dati alla mano, poiché si trattano di affermazioni concrete che sfuggono a loro volta da locuzioni spicciole quali “non si può patteggiare con la mafia”, “bisognerebbe debellare le droghe anziché produrle e lucrarci”, e infatti interessantissima è la ricerca condotta dall’Università “Magna Grecia” di Catanzaro. Secondo i ricercatori all’interno del progetto “Light cannabis and organized crime: Evidence from (unintended) liberalization in Italy”,si afferma che “con l’apertura dei cannabis shop è avvenuta una riduzione del 14% dei sequestri di marijuana illegale per punto vendita e a una riduzione dell'8% della disponibilità di hashish. I calcoli su tutte e 106 le province italiane prese in esame suggeriscono che i ricavi perduti dalle organizzazioni criminali siano in una forchetta stimata tra i 90 e 170 milioni di euro all'anno. Si stima inoltre che la vendita di cannabis light abbia portato a un calo di circa il 3% degli arresti per reati di spaccio".
Arrivati sino a questo punto dell’articolo, avrete intuito che legalizzare le droghe leggere non è una cosa così tanto malvagia, anzi, può rilevarsi addirittura utilissima in campo medico (basti pensare che nei malati di Parkinson favorisce la riduzione del tremore a riposo, attenua la bradicinesia e discinesia indotte dal Levodopa, stimola l'appetito e concilia il sonno. Tuttavia non sono un medico, pertanto mi limito a ciò e lascio spazio agli esperti). 
Purtroppo, come spesso accade, questa storia sfocia in mere campagne ideologiche che costruiscono un muro di cemento armato nel cervello di coloro che le portano avanti, un muro che si pone tra il sano e cosciente progresso e un mondo fatto di pregiudizi e uomini stereotipati. Da una parte abbiamo i conservatori radicali che sostengono le loro tesi con la pericolosità della cannabis nel tempo, dall’altra gli antiproibizionisti che tirano in ballo le vittime causate da sostanze già legali quali tabacco e alcool; io ne aggiungerei una terza “parte”, quella in cui risiedono coloro che notano questi dibattiti ma che usano la carta dell’indifferenza, senza fare nulla di concreto, né per legalizzare – in questo caso – né per chiudere questo discorso una volta per tutte, senza tornare periodicamente nella pozza del ridicolo riprendendo questo tema e giocandoci su per racimolare consensi. 
Proprio a riguardo di tutto ciò, ho deciso di intervistare qualcuno che del settore non ne sa molto, ma di più: Renato Caforio, presidente del centro di solidarietà “Il Delfino”,onlus operante su Cosenza con alle spalle tre decennidi attività. 

Ultimamente nel nostro governo si sta discutendo se legalizzare o meno le droghe leggere; in base alla sua esperienza appresa vivendo i vari casi nella comunità, crede che legalizzando le droghe leggere si possa evitare uno stato di dipendenza in chi ne fa uso e, soprattutto, dare una batosta alla criminalità organizzata? Visto che le suddette sostanze verrebbero distribuite in determinate quantità e sottoposte a numerosi controlli.

La nostra posizione è molto semplice e riteniamo ciò: tutte quelle forme di dipendenza già legali (alcool, tabacco, gioco d’azzardo) procurano danni molto consistenti nella popolazione, in particolare quella giovanile, ma nonostante questo sicuramente costringono la criminalità organizzata a rinunciare a forti guadagni... Stesso varrebbe per le droghe. Da una parte, però, c’è il discorso che legalizzando le droghe leggere si colpiscano molto le mafie, ma dall’altra ci sono gli effetti sulla popolazione in generale. Noi non abbiamo una posizione ideologica sul legalizzare o meno, anche perché ci sono già – per esempio - negozietti che vendono droga legalizzata (cannabis con un principio attivo di thc irrisorio), ma la questione centrale è: Come facciamo invece ad aiutare i giovani a tenersi lontano da queste forme di dipendenza? Perché in questo modo (legalizzando) non viene assolutamente affrontato ciò, anzi, si favorisce l’uso. Per cui la posizione qual è? Siccome il mondo va in una certa direzione (giovani che fanno uso di droghe per sballo, per seguire veri e propri stili di vita ecc), almeno riduciamo il danno facendo il discorso della legalizzazione; quest’ultima lascia perplessi soprattutto noi che lavoriamo in questo settore, però se qualcuno decide di fare questo ovviamente si assume anche la responsabilità delle conseguenze. Quello che noi sappiamo è che ci sono delle problematiche dovute al consumo delle droghe cosiddette leggere (leggere fino ad un certo punto, perché ormai si sa che su alcuni soggetti si possono scatenare addirittura patologie di natura psichiatrica), ma non ci sono progetti, programmi, iniziative per contrastarne l’uso e ciò è evidente. Quindi noi non facciamo battaglie ideologiche, ma constatiamo che sul tema delle droghe e delle dipendenze in generale lo Stato abbia fortemente abbassato la guardia, depotenziando tutti i servizi sia di prevenzione che di recupero e accoglienza. 


Tratterò la tematica del proibizionismo annessa alle droghe. Lei pensa che proibendo l'uso di una di queste sostanze (esempio la marijuana), un individuo sia ancora più disposto ad ottenerla proprio perché proibita?

Sicuramente ciò è vero, tanto più una cosa è proibita tanto più attrae a livello psicologico. C’è da dire anche che tutte quelle sostanze legali che oggi creano dipendenza mietono molte più vittime e danni di quanto non facciano le droghe così dette illegali (come cannabis). Dai ragazzini di 12 al vecchietto di 80 anni c’è una corsa alle macchinette, al tabacco, tutte quelle cose legali dalle quali lo stato guadagna pure molto.


Uno dei recenti decreti di questo governo vuole riproporre pene da due a sei anni di reclusione per gli spacciatori e, in determinati casi, per i consumatori; ciò richiama la legge Fini-Giovanardi. Quest'ultima, però, non solo non ha diminuito l'uso di droghe, ma è anche stata considerata la causa principale del sovraffollamento delle carceri. Le forze dell'ordine, in poche parole, dovranno seguire anche i cittadini innocui che usano droghe leggere, dunque l’obiettivo del Governo sembra quello di farsi vedere punitivo più che rivolto a risolvere il problema alla base. Lei è d'accordo su una possibile incarcerazione di chi viene a contatto con droghe leggere, piuttosto che sviluppare il settore del recupero nei confronti di chi soffre di una vera e propria dipendenza dalle sostanze stupefacenti?

Salvo casi con reati molto gravi (legati alle mafie o all’abuso di sostanze), in base alla nostra esperienza possiamo affermare che il carcere non sia assolutamente rieducativo su questo punto di vista. Piuttosto, abbiamo osservato che alcune persone tossicodipendenti che hanno commesso piccoli reati, possono usufruire di percorsi riabilitativi o lavori socialmente utili e ciò funziona con buone opportunità per scontare pene e stare in comunità. Quanto a coloro che magari vengono fermati con piccole dosi, per uso personale, che debbano finire in carcere non è assolutamente plausibile; se qualcuno viene fermato con una modica quantità, al massimo può entrare in questi percorsi, invece che finire in galera andando a peggiorare anche la propria condizione.  


Ora sta a voi prendere una decisione e una posizione, possibilmente stabile: cosa ne pensate di quanto scritto? Fatecelo sapere nei commenti!


Aldo Maria Cupello
aldocupello6@gmail.com

domenica 19 maggio 2019

UN PRETE NON DEVE FARE POLITICA

RUBRICA DI ATTUALITÀ
"Pensare fuori dalle Righe"



Un prete non deve fare politica … 
Un prete non deve schierarsi … 
Un prete deve rimanere sopra le parti: è padre di tutti …
Un prete non deve entrare nelle questioni di partito, deve occuparsi di fede, di morale …

Ecco … proprio per questo, da prete, sento l’urgenza impellente di dedicare la pagina della mia rubrica al nostro ministro dell’interno.
Sento – da prete – il dovere non di contestare una sua scelta politica (e ce ne sarebbero i motivi!), non di invitare alcuni a non votarlo (questo un prete non deve farlo!) … da prete sento di ripetere a lui un detto che la mia nonna mi ha insegnato da bambino: “Scherza con i fanti, ma non scherzare con i santi!

Ecco … il Tweet che qui sotto ritrovate, eco del pessimo comizio che il ministro ha tenuto ieri, fa davvero piangere il cuore. Strumentalizzare la fede in maniera così gretta, banale, irrispettosa, fa davvero tremare i polsi. Se il Signor Salvini è disposto ad utilizzare la fede per farsi scudo e andare avanti mi domando: “Non farà lo stesso anche con questioni di minor importanza?” Sì, perché per un cristiano – come egli si ritiene (forse dovrebbe tornare a catechismo), la fede, il rapporto con Dio è prioritario rispetto a tutto semplicemente perché dà senso a tutto.

Qualcuno dirà: ma che c’è di male nell’affidare la propria vita al cuore immacolato di Maria? Nulla, ma utilizzare la fede così, in tempo di campagna elettorale e durante un comizio, con tanto di Hastag “26maggiovotolega”, indica un’immaturità, una superficialità e anche una grettezza di cuore a dir poco impressionante.

Da prete – questo sono – mi tocca ricordare a Salvini la bellezza della Litania Lauretana nella quale ricordiamo Maria come “Rifugio dei peccatori” e “consolatrice degli afflitti”. Due titoli stupendi. Come lo è quello di “Regina dei cristiani”. Mi spiace per Salvini, ma, invece, nella Litania non c’è il titolo di “Madre del prima gli italiani” o “Regina dei porti chiusi”.

Si dovrebbe ricordare a quest’uomo che la fede è una cosa seria. Che la fede non esiste fuori dalla comunità ecclesiale, che ha dei suoi pastori, un suo insegnamento e che richiede una coerenza che necessariamente non può andare ad intermittenza e giusto nel periodo di campagna elettorale.
Sì, gli si dovrebbe dire – dico da prete – che è un “cristiano” incoerente.

Ecco queste cose gli si dovrebbero dire. Poi ognuno voti chi vuole. Ma con la fede … con quella non giochiamo e questo vale sia che ci si creda, sia che non ci si creda.

Io ho paura delle persone che giocano con le cose importanti, che non hanno limiti nel parlare, che pensano di essere i padroni del mondo. Ho paura di quei cristiani che odiano i fratelli, che li lasciano nelle loro povertà, che strumentalizzano la sofferenza per mostrare quanto sono bravi loro. 

Da prete questo lo posso dire. Perché in fondo un prete di questo si deve occupare no? Di dire la verità perché la verità – lo ricorda Gesù – ci fa liberi. E allora questa verità non la possiamo tacere: il Signor Salvini ha veramente superato il limite della decenza.

Ma da prete mi tocca anche tendere una mano perché Salvini è e rimane mio fratello. E allora? Due cose posso offrire alui: 1. La preghiera; 2. La disponibilità ad offrirgli un corso di catechismo. 


Don Giuseppe Fazio
gfazio92@gmail.com






venerdì 10 maggio 2019

PRIMI O UNICI? (un augurio in campagna elettorale)

RUBRICA DI ATTUALITÀ
"Pensare fuori dalle Righe"



È strano come in una società che, dalla rivoluzione francese in poi, è andata sbandierando i sentimenti della fraternità e della uguaglianza, siano aumentate le classifiche e con esse la competizione dei singoli, come delle corporazioni o società.
Tuttavia la competizione è una dimensione antica quanto l’uomo stesso. Basti pensare a Caino che per spirito di competizione volle far fuori suo fratello Abele. 

Oggi in modo particolare viviamo la nostra quotidianità continuamente in competizione. Dobbiamo essere a tutti i costi i primi: i primi a fare qualcosa, ad avere qualcosa che altri non hanno; primi sul posto di lavoro, primi nelle compagnie/cordate, primi nelle file, finanche nel divertimento e nel gioco.
Viviamo immersi in uno spirito di competizione che diventa generatore di ansia, insoddisfazione, rivalità e paura. Sì, perché in fondo primo non sarai mai. Ci sarà sempre qualcuno davanti a te. 
Ricordo con il sorriso quando in macchina, da bambino, volevo che mio padre sorpassasse tutte le altre vetture, perché noi dovevamo essere i primi. Credo fosse una tortura per lui che, conscio di non poter esaudire il mio desiderio di primeggiare, doveva inventarsi diverse categorie/scuse dicendomi cose del tipo: “siamo i primi di quelli che hanno la nostra stessa macchina” oppure “siamo i primi di quelli che sono partiti con noi”, ecc …

La verità è una ed è anche banale: primo non potrai essere mai perché non sei fatto per essere primo. Già … l’uomo non è fatto per essere primo di nessuno. Il Qoèlet, un libro della Bibbia straordinariamente profondo quanto poco conosciuto, esprime questa realtà con una chiarezza assurda: 

Tutto ciò che è già avvenuto accadrà ancora; tutto ciò che è successo in passato succederà anche in futuro. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Qualcuno forse dirà: Guarda, questo è nuovo! Invece quella cosa esisteva già molto tempo prima che noi nascessimo (Qoèlet 1,9-10)

Prima di noi c’era qualcuno e dopo di noi ci sarà qualcuno … qualcuno più bravo, più intelligente, più simpatico, più … più … più … E allora? Dobbiamo rassegnarci ad essere un “meno” rispetto ad altri? Niente affatto. 

La questione è un'altra: noi non siamo fatti per essere primi, ma per essere unici. È vero che ci saranno persone che faranno delle cose migliori, ma non le faranno come io le so fare. Ecco … la competizione fa perdere di vista l’unicità di quello che siamo. Mentre ci condanniamo ad un’esasperata lotta dimentichiamo che siamo unici. Se vogliamo usare termini di categorie forse potremmo dire così: ognuno è primo nella sua categoria, ma non perché davanti ad un altro, bensì semplicemente perché unico ed irripetibile. 

Quanto sarebbe bello riscoprire quest’unicità. Quanta serenità darebbe. Quanto sarebbe bello se lo riscoprissero anche i nostri politici, adesso impegnati in campagne elettorali a vari livelli. Sentiremo in queste ultime settimane comizi volti a convincere l’elettorato su un presunto essere “migliori”, “primi” rispetto agli avversari. E nel frattempo? A farne le spese sarà sempre il bene comune. 

Qualche giorno fa, in visita al Quirinale con il Collegio Capranica, nel quale risiedo da ormai nove anni, ho potuto ascoltare le belle parole del nostro Presidente Mattarella che a tal proposito diceva con simili parole: il rischio di ogni politico è quello di pensare che le sue idee siano migliori solo per il fatto di avere successo.

Da uomo acuto, qual è il Presidente, ha intuito una verità fondamentale: mentre il primato ti viene consegnato secondo parametri che sempre saranno soggettivi su questa terra, l’unicità è un parametro oggettivo che dona al cuore libertà … la libertà di essere se stessi, di non dover piegare la schiena e il proprio pensiero a logiche di competizioni, di alleanze scorrette o di corruzione. 

Queste riflessioni – consentitemelo – diventano un mio personale augurio ai nostri politici impegnati in questa campagna elettorale – nei comuni come alle europee: abbiate a cuore di essere unici e non primi. I primi passeranno, come ne sono passati tanti, gli unici resteranno perché avranno dato un contributo che nessun altro potrà più potrà dare dopo di loro. 



Don Giuseppe Fazio
gfazio92@gmail.com





martedì 7 maggio 2019

LIBERI DI PENSARE E DI PARLARE?







RUBRICA DI OPINIONE
"Agorà: piazza di discussione"





Venerdì 3 Maggio 2019 si è tenuta la Giornata mondiale della libertà di stampa, volta a sottolineare l'importanza della libertà editoriale e a ricordare ai governi (specialmente quelli filo-totalitari) il loro compito di "garante" della libertà di parola (Art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti umani). 
Purtroppo noi uomini prima compiamo gli orrori, poi cerchiamo di posizionare cerotti sulle atrocità del passato, tant’è che la suddetta celebrazione annuale nasce solamente nel 1993, il 17 dicembre (ma d’altronde, meglio tardi che mai), nel momento in cui le Nazioni Unite iniziarono ad interessarsi di ciò conferendo premi e tenendo conferenze internazionali, ricordando coloro rimasti uccisi durante il proprio lavoro e, in particolare, le vittime di Kabul (10 report uccisi solamente nel mese di aprile 2018).
Di seguito, una grafica realizzata nel 2019 in collaborazione con la ONG “Reporters Without Borders” per il portale web tedesco di statistica “Statista”, che ci mostra una mappa del livello della libertà di stampa nel mondo; la Norvegia ha registrato la migliore posizione, seguita da Finlandia e Svezia. I Paesi che occupano il fondo della classifica sono Eritrea, Corea del Nord e Turkmenistan. Dei 180 Paesi analizzati, solo il 24% è stato classificato come "buono", un calo dal 26% del 2018.



Tornando indietro di un anno, anche il 2018 è stato tutt’altro che rose e fiori; 80 giornalisti uccisi, 348 detenuti, 60 ostaggi e 3 dispersi, come mostra la seguente grafica di Reporters Sans Frontieres… Insomma, fino ad ora abbiamo parlato di professionisti torturati, minacciati ed infine giunti al punto di morte, per carità, massimo onore e rispetto per chi cade durante lo svolgimento di una professione così nobile, ricordare il passato è vitale per sviluppare al meglio il nostro presente e poi futuro, ma personalmente non mi piace piangere più del dovuto sul latte versato, cristallizzarmi sull’avvenuto, bensì concentrarmi su coloro ancora in vita che possono cambiare le cose e darci preziose pillole culturali acquisite dalla loro esperienza diretta, da fatti che hanno vissuto o che – purtroppo – vivono ancora oggi, ma soprattutto interessandomi sulle possibili cose da fare per migliorare la situazione circostante ( per esempio tutelare coloro che lavorano in determinati settori, dunque - in questo caso - i giornalisti, con le giuste osservazioni e mettendo mano per migliorare l’inefficiente macchina burocratica italiana, che altro non fa che tardare nelle indagini e nel prendere i “giusti” provvedimenti sicuramente non a tempo debito). 










In Italia, infatti, la libertà di stampa è osannata da ormai un paio di anni (mi soffermerò sulla situazione italiana, anche se nel mondo il modus operandi per tappare la bocca di coloro che vengono bollati come “scomodi” è più o meno simile), e nel Bel Paese – come la chiama Antonio Stoppani – si ci vanta di avere una stampa libera dai soprusi politici, libera di poter vivere autonomamente dal punto di vista economico (senza il necessario bisogno dei fondi statali per lo sviluppo delle testate giornalistiche), libera da coloro che si fanno trovare sotto casa tua con le braccia conserte - e sicuramente non pronti ad offrirti un pomeriggio tranquillo all’insegna di pacifiche chiacchierate - quando non sono d’accordo con ciò che hai scritto, dunque una stampa libera di poter scrivere ciò che vuole (naturalmente nei limiti consentiti dalla legge) senza pensare troppo alla post pubblicazione degli articoli, senza pensare “se scrivo questo, pinco pallino mi licenzia”, “se scrivo questo rischio di non tornare a casa”, “se scrivo questo mi censurano”… 

Ma dove? Ma quando? Chi sostiene ciò evidentemente è troppo impegnato a sorseggiare Dom Pérignon dall’alto delle sue terrazze invece di toccare la realtà con mano: l’Italia è prima nella classifica completa (stipulata tra gli Stati UE) delle aggressioni fisiche (83 aggressioni in tutto, seguita da SpagnaFrancia, Germania e Ungheria), fa da capocannoniera anche nelle intimidazioni con i suoi 133 casi di minacce, e “vanta” 3.722 giornalisti uccisi e/o vittime di violenze. Tra quest’ultimi presentiamo Graziella Di Mambro, minacciata di lesioni per le sue inchieste sugli appalti e la corruzione legata alla gestione dei rifiuti nel basso Lazio e a Minturno; Massimiliano Coccia, giornalista di Radio Radicale, che dopo un’intervista pungente ricevette un foglietto anonimo che prometteva “piombo”. E ancora gli attacchi a Federico Ruffo, giornalista di Report che nel dicembre 2018 ha subito un tentativo di incendio della sua casa. 
I giornalisti uccisi in Italia sono 28: undici ammazzati in territorio italiano per mano delle mafie o del terrorismo, diciassette all’estero. L’impunità arriva al 90% (fonti: www.osservatoriodiritti.it). 
«i giornalisti italiani sono più spesso minacciati da privati cittadini, che ricorrono spesso alla violenza fisica. Inoltre subiscono forti pressioni da parte di persone legate alla criminalità organizzata»
Questa serie di episodi, avrete capito, rendono lo stivale tutto tranne che un Paese 100% democratico in cui si possa esprimere apertamente il proprio pensiero, e la situazione non fa che peggiorare. “Bisognerebbe sostenere il loro lavoro perché danno un contributo rilevante alla causa della democrazia, occorre proteggere le loro voci che rifiutano ogni sopraffazione. La libertà di informazione, come attesta la nostra Costituzione, è fondamento di democrazia", come disse il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ma il problema è che qui in Italia siamo troppo abituati ad usare il condizionale… la teoria la sappiamo molto bene (a volte), ma nei fatti cadiamo come delle pere cotte. 
Il mestiere del giornalista, a mio avviso, è uno dei più belli su questa terra; dare alle persone la possibilità di informarsi attraverso le notizie che, normalmente, non saprebbero ricavare e ricevere. Una cosa bellissima. Purtroppo ciò - basandomi anche sull’ascolto di esperienze e fatti locali - è molto a rischio per diverse cause, due principali: la prima è per via dei social, i quali hanno portato molti giornali ad abbassare la saracinesca poiché le copie cartacee vendute si sono ridotte sempre di più (si è passato dalle 5.000 copie vendute alle 180 per alcuni giornali del posto), ma il problema non è solo dell’internet – e qui parte la seconda causa, la più brutta e deludente - ma anche del numerosissimo tasso di mancato interesse verso questa professione da parte dei giovani studenti; nessuno vuole più fare il giornalista, vuoi per le scarse retribuzioni iniziali, vuoi per la “seccatura a scrivere” (testuali parole ascoltate da me in prima persona), vuoi per il fattore di rischio in base a ciò che si scrive, questo lavoro è messo a repentaglio, ed è una delle cose che mi addolora di più, soprattutto sentendo i numerosi casi di cronaca riportati proprio nelle giornate come quella interessata alla libertà di stampa. Vorrei che la stampa libera non si fermasse a qualcosa di utopico ma che un giorno divenisse realtà, perché – in fondo – ci credo.

Siamo arrivati alla conclusione di questo articolo e spero di aver suscitato interesse in voi, portandovi alla riflessione e al porvi diverse domande a riguardo. A cosa pensiate sia dovuta questa carenza nell’interesse verso il lavoro di giornalista? Credete che in Italia la stampa sia, in qualche modo, libera? Se col tempo non esistessero più i giornali, o fossero totalmente filtrati, cosa scatenerebbe ciò nel mondo? Fatecelo sapere nei commenti. 


«Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure».






Aldo Maria Cupello
aldocupello6@gmail.com