RUBRICA DI ATTUALITÀ: PENSARE FUORI DALLE RIGHE
Lo scorso 11 Febbraio, come ben sappiamo,
è stato il quinto anniversario dello straordinario, quanto rivoluzionario,
gesto delle dimissioni di Benedetto XVI.
Un gesto che probabilmente non è stato
ben compreso né ad intra, né ad extra della Chiesa; men che meno penso io di
averlo compreso a fondo.
Tuttavia vorrei condividere con voi una
piccola riflessione. In questi cinque anni si è parlato di dimissioni, di
“abbandono della croce”, di fuga, ecc … vorrei però, a partire da quanto detto
dal papa stesso in quel famoso concistoro, utilizzare una precisa parola:
Rinuncia. Il papa nel suo testo, facilmente reperibile, parla di rinuncia.
Perché?
Le sue forze erano venute meno, i problemi
da gestire erano grossi e molteplici ed egli si sentiva profondamente inadatto
a portare avanti questo ministero. Dinnanzi a lui c’erano due possibilità:
andare avanti perdendo sempre più le capacità di adempiere al suo servizio
oppure rinunciare per lasciare spazio agli altri, certo pur compiendo un atto
“grave”(cito ancora termini da lui usati). Che fare?
Un uomo qualunque, uno come me, e come
tanti altri di voi, avrebbe continuato (si prega di non fare il paragone con il
suo predecessore: erano tempi e situazioni diverse), ma lui, da uomo di grande
santità e umiltà, lui no. Ha rinunciato.
Sì, ha rinunciato. Quanto ci fa schifo
questa parola. Alla rinuncia noi associamo la codardia, la viltà, e di
conseguenza anche l’egoismo. In realtà la rinuncia, almeno un certo tipo di
rinuncia, è segno di grande maturità umana e spirituale.
Spesso ci capita di non essere felici. Di
fare tanti sforzi per tutti e di ritrovarci senza niente, senza nessuno dei
risultati sperati. Dinnanzi a questo fallimento? Stiamo sempre lì a
moltiplicare gli sforzi oppure cadiamo nel vortice drammatico della depressione.
Non siamo capaci di rinunciare. A cosa? Al nostro egoismo, alla nostra
apparenza, al nostro dirci che infondo siamo indistruttibili.
Non siamo capaci di fare un passo
indietro, di chiedere scusa a quelle persone che si è ferite, di rimettere un
impegno nelle mani di un altro che magari ci può aiutare o forse felicemente
sostituire.
Siamo tristemente abituati alla fuga dal
problema (aborto, divorzio, eutanasia, ne sono prova eclatante), oppure,
all’eccesso opposto, siamo testardamente convinti che ce la faremo (accanimento
terapeutico, rifiuto della realtà della morte o della sofferenza, ecc..).
Dovremmo forse imparare l’arte della
“rinuncia” che non è un gettare la spugna, ma il riconoscimento del proprio
limite che ci apre all’altro. Esatto. Il segreto della felicità sta proprio in
questa apertura all’altro. Quante coppie, amicizie, rapporti falliscono perché manca
questa importante capacità svuotamento.
Allora il gesto di Benedetto XVI è stato
davvero un gesto di grande profezia. Si capisce bene perché egli più volte ha
dichiarato di essere ora sereno. Non, come i cattivi hanno insinuato, perché
ora fa la bella vita, ma perché ha amato fino infondo la Chiesa, ad essa, e a
Cristo, ha aperto tutto il suo cuore, consegnando, con straordinaria umiltà,
anche i suoi limiti. Con tale gesto ci ha insegnato che il segreto della
felicità, ancorata in Dio, si trova proprio nella capacità di mettere da parte
il proprio “io”, forse correndo il rischio di sentirsi dire che si è deboli,
falliti, incapaci di svolgere ciò per il quale si era stati chiamati. Ma a chi
ha un cuore del genere non importa ciò che gli altri dicono perché non vive nel
regno dell’apparenza, ma dell’essenza, cioè di ciò che realmente conta.
Sono passati già cinque anni e la storia ha
già dato ampiamente ragione al papa rinunciatario. Il suo mettersi da parte,
continuando a lavorare rimanendo “nel recinto di Pietro”, ha permesso alla
Chiesa di prendere nuove forze, di avere un nuovo slancio, anche grazie al suo
successore, che ha davvero compreso a fondo il gesto di Benedetto XVI.
Forse fare un po’ nostro questo senso di
“rinuncia” ci aiuterebbe ad essere figli migliori, genitori migliori, amici
migliori. Migliori non perché invincibili, bensì perché autentici. Autentici ed
umili nelle nostre fragilità, come in tutte quelle belle capacità che ciascuno
custodisce nel proprio cuore.
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