sabato 1 dicembre 2018

Sono contento perché mi accontento oppure Mi accontento perché sono contento?

RUBRICA DI ATTUALITÀ
"Pensare fuori dalle Righe"




Dopo una molto lunga pausa estiva, mutatasi poi in autunnale, torniamo a condividere con voi qualche riflessione. Lo stimolo mi è stato suggerito questa volta, non da una notizia di cronaca, dal testo di una canzone o di una poesia, ma dall’essermi reso conto di una sfumatura linguistica che non avevo mai colto, almeno non esplicitamente, prima dell’altro giorno, mentre, come al solito di fretta, mi preparavo per la celebrazione eucaristica. Ovverosia che il verbo “accontentare” contiene la parola “contento”. 
Secondo la Treccanicontentoderiverebbe da contĕntus, part. pass. di continere «contenere», quindi propr. «contenuto; pago di qualche cosa». Con un po’ di fantasia potremmo dire che questo aggettivo significa “essere riempito”. In effetti, se ci si pensa bene, noi siamo felici quando non desideriamo null’altro in aggiunta rispetto a quanto già possediamo. 
Tutti vorremo essere sazi, “riempiti”, ma spesso ci accorgiamo che questa condizione di sazietà è quasi irraggiungibile. Lo “stomaco” della nostra anima è sempre alla ricerca di qualcosa in più. Sorge, dunque, spontanea una domanda: possiamo essere sazi in modo definitivo? Non è forse vero che l’uomo possiede un infinito desiderio di gioia, pace, amore? Siamo, dunque, condannati all’infelicità, almeno su questa terra?

Se mi fermassi a questa prima parola sarei quasi tentato di dire che sì, siamo condannati alla tristezza. Mi viene in aiuto, però, il secondo lemma chiamato in causa in apertura: “accontento”. Se contento è colui che è sazio, colui che accontenta è colui che sazia. Ora questo verbo, lo sappiamo, può essere utilizzato anche in forma riflessiva (accontentarsi). Sappiamo che grandi filosofi – nota l’ironia – come Ligabue hanno espresso idee del tipo “chi si accontenta gode … così così”. 
Eppure questo verbo riflessivo contiene – a mio avviso – una sapienza nascosta. Come ci si può accontentare? Colui che si accontenta è felice perché non vuole altro, è contento, è riempito. Potremmo pensare che si tratti semplicemente dei poco ambiziosi, di quegli stolti che, per pigrizia, non hanno il coraggio di andare oltre se stessi. Potrebbe essere. Ma forse … forse … chi si accontenta ha raggiunto la sapienza di chi non modella la realtà sul proprio stomaco, ma viceversa. 

Chi ha fatto l’esperienza straordinaria di visitare zone di povertà – non per forza fuori dall’Italia – ha probabilmente notato che chi ha niente tende ad essere felice più di chi ha molto. Non ne sono sicuro, ma credo che ciò sia vero perché il povero, colui che riceve tutto, colui che si “accontenta” è capace di dare il giusto valore alle cose, alle persone, alle relazioni. Forse questo indica Gesù quando dice: “Beati i poveri in Spirito”. Sì, chi si accontenta forse è povero, ma è beatus, contento, felice, perché si lascia riempire da ciò che ha, dal quotidiano, da quello che il momento offre, senza, però, vivere una vita mediocre. La differenza, infatti, tra il povero in spirito, tra l’ac-contento ed il mediocre è che quest’ultimo non è felice, in quanto un banale arraffone, superficiale e, probabilmente, anche un superbo. 

In fondo il contento è uno che si accontenta, sì, ma di cosa? Del necessario. Allora forse all’inizio del nuovo anno liturgico cade bene la preghiera che il libro dei Proverbi ci consegna perché ci introduce nella via della felicità:

7Io ti domando due cose,
non negarmele prima che io muoia:
8tieni lontano da me falsità e menzogna,
non darmi né povertà né ricchezza,
ma fammi avere il mio pezzo di pane,
9perché, una volta sazio, io non ti rinneghi
e dica: «Chi è il Signore?»,
oppure, ridotto all'indigenza, non rubi
e abusi del nome del mio Dio. (Proverbi 30,7-9)




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