mercoledì 6 novembre 2019

IN MEMORIA DI DON IGNAZIO SCHINELLA


 In occasione del secondo anniversario della dipartita di don Ignazio ripresentiamo un vecchio racconto immaginario per offrire un grato ricordo di questo grande sacerdote. 







Cari amici, 



                forse per gli impegni, forse per la stanchezza era da molto che non vi scrivevo dei miei viaggi. 
Proprio oggi mi è toccato di farne uno che mai avrei voluto fare, ma che voglio condividere con voi. Tranquilli questa volta non sono stato ad Ippona o a Bagdad, ma ad Arena un piccolo paese della Calabria. 

Mi sono recato in una piccola strada, sapete quelle di paese, quelle discese ripide che si snodano tra case che raccontano di storie, di volti, di quei personaggi che trovi in ogni paesino che si rispetti. 
In fondo a quella stradina di paese, non cercavo un monumento, una targa o un noto paesaggio, ma una macchina. Sì, quella di don Ignazio.  

Sono rimasto a guardarla per ore.  In quei lunghi istanti ho provato ad immaginare la dinamica dell’incidente, cosa lui abbia potuto provare, come sarebbe potuto andare se ci fosse stato qualche passante. Tanti pensieri, forse, i più inutili. 

Mentre osservavo la macchina, completamente rovinata nella parte anteriore a causa dell’impatto con lampione che si trova proprio al termine di quella stradina, un anziano signore si è fermato accanto a me. Non so quanto tempo sia rimasto fermo a guardarmi, ma, forse per compassione, ad un certo punto ha esordito dicendo: “Un calo glicemico. Pare che a causa di questo abbia perso il controllo dell’auto”. Poi fa una pausa e riprende: “Vede – si volta, guarda dall’altro lato e continua – in fondo a questa strada c’era casa sua. Pochi minuti e sarebbe arrivato. E’ proprio strana la vita!”

Non so perché, ma quelle parole mi hanno gettato ancora di più nello sconforto e, come la benzina che subito s’infiamma quando viene gettata sul fuoco, quei pensieri, quella serie di “ma”, “se” e “però” che si erano appena fermati hanno ripreso a girarmi vorticosamente in testa. 

E’ proprio strana la vita. Guardo ancora la macchina e penso: Forse, caro don Ignazio, ti sarebbe bastato alzarti cinque minuti prima, magari lavarti la faccia più velocemente, o forse evitare di contemplare i paesaggi, come a te piaceva fare, lungo la strada e premere un po’ di più l’acceleratore. Saresti arrivato a casa, avresti mangiato una caramella, ed io ora non sarei qui. Qui a contemplare quello che resta della tua auto e a pensare che è davvero strana la vita. 

A questo punto, preso da molta tristezza, decido di sedermi su quello scalino contro il quale ha urtato, prima dell’impatto che ti è costata la vita, la tua macchina mentre ormai, abbandonata alla ripidità della discesa, continuava la sua mortale corsa. Mi siedo come a prendere un po’ d’aria e nel frattempo contemplo la macchina, mentre su Arena scende la sera. Un tramonto … uno di quelli che tante volte avrai contemplato in questa terra che amavi visceralmente, per la quale ti sei speso e affaticato e che con quanta sofferenza, solo Dio lo sa, avevi lasciato qualche anno fa per dedicarti alla tua passione: l’insegnamento in una terra, quella napoletana, che forse con te è stata un po’ più accogliente di come lo sia stata quella calabrese. 

 E’ strana la vita, mi ripeto quasi con angoscia. Di uomini come te non se ne vede mai la fine, sembra che non debbano mai partire, e quando succede, sembra tutto un sogno, anzi un incubo. Un incubo dal quale la realtà non esita a svegliarti con la sua durezza, come duro è per me guardare queste lamiere divelte. 

Respiro a fatica, riempio i polmoni di aria, mentre gli occhi si gonfiano di lacrime ed una sola domanda rimane nel mio cuore: Perché? Perché una fine così brutta? 

E’ in questo momento che la porta alle mie spalle si apre. Sobbalzo come riportato con i piedi per terra. Istintivamente mi alzo e mi volto verso d’essa. Una signora anziana, una nonnina, mi sorride. Restiamo alcuni istanti in silenzio, insieme guardiamo quella macchina, poi è lei ad interrompere quel silenzio che quasi sembrava eterno: “Era un uomo di Dio e nessuno poteva immaginare una fine così. Un uomo che con il suo sguardo sapeva dare valore alle persone. Non importava chi tu fossi. Un insegnante, un politico, un vescovo o un agricoltore, quando lui ti guardava ti dava dignità”. 

Sorrido. E’ il primo sorriso della serata. Sorrido mentre mi ricordo quando “Ciccio u pacciu” (Ciccio il pazzo), quel buon uomo che sicuramente ora ti avrà accolto in paradiso, si avvicinò da te per dirti un segreto: Gesù e Maria Maddalena erano marito e moglie. Tu lo guardasti con affetto e serietà proprio come se un amico ti stesse confidando un segreto straordinario. E quando lui poi, preoccupato del suo segreto, ti disse di non dirlo a nessuno tu lo rassicurasti sì, con quello sguardo che dava dignità e con un sorriso accogliente dicendogli: “non lo dico a nessuno”. 
Per un attimo mi perdo in quel ricordo. Ma è solo un attimo il tempo che la vecchina riprende a parlare e ritorno con i piedi per terra. 

Continua lei: “Io penso che una brutta fine non sia data dal fatto in sé, ma da come si vive quel fatto”. Inspira, rimane in silenzio, guarda la macchina e poi riprende: “E don Ignazio di sicuro non ha fatto proprio una brutta fine. Perché lui era di animo nobile. Forse non si sarà nemmeno reso conto di quello che stava per succedere, o forse sì, ma sono certa che anche la morte lui l’abbia accolta con dignità. Figlicì (figliolo), io rientro e stai tranquillo che se ben conosco don Ignazio, adesso è in cielo a far casino”.

Adesso sulle labbra e ancor più nel cuore si è fatto prepotentemente spazio un sorriso. Mi immagino lui tra le nuvole correre avanti e indietro dal Signore proponendogli questa idea o quest’altra ancora, come faceva per le sue ricerche o quando aveva un progetto in testa. Rido, scuoto il capo. 

Morire con dignità … ripeto dentro di me questa frase. Quale dignità? Quella di Figli. Lui per molti è stato un grande padre, ma perché in fondo ha vissuto sempre da figlio, Figlio di un Padre che non è solo nei cieli, ma sempre vicino a noi; figlio di una Madre tenerissima, Maria, che ha sempre amato e sentito accanto a sé. 

Morire con dignità … Scrivevi in una raccolta di tue poesie: "Nella speranza attendo il tuo ritorno che mi rompa il velo dagli occhi inginocchiati ad adorarti nel villaggio degli uomini offesi. So che sei con gli esclusi e non mi importa se gli altri mi allontanano dallo stormo degli uomini. Mi basta che m'ami con tutti i miei peccati". E ancora: "Lasciatemi morire nel silenzio. Non voglio sentire il pianto delle donne ... Fatemi consumare dalla mai terra".

Sei stato esaudito. Il silenzio degli amici, della folla che ieri ti ha salutato, dei tanti che si sono raccolti per dire una preghiera o per ricordarti o semplicemente perché sbigottiti, ti ha accompagnato. Quel silenzio che non è assenza di parole, ma è presenza di dignità, di affetto, di riconoscenza. 
Ciao donnignà (tutto attaccato come in tanti ti chiamavamo). Grazie per tutto. E se ora la tristezza mi fa  comporre questa parola “Addio” la speranza me la fa scomporre in “A Dio”. Si, ci vedremo davanti a Dio e come sarà bello! 


Don Giuseppe Fazio









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