giovedì 26 marzo 2020

IL CORONAVIRUS IN CARCERE

RUBRICA DI ATTUALITÀ


"Il Prete e il Letterato"








Tesi:

Il letterato: Sotto traccia, alla fine del telegiornale della sera, in questo momento terribile per l’umanità, stiamo sentendo passare una notizia: le carceri sono in rivolta. Motivi: la sospensione dei colloqui con familiari e avvocati e il sovraffollamento carcerario. La prima umana reazione alla notizia è normalmente l’indignazione: in un periodo del genere, a che pro ribellarsi? Per sommare problemi ai problemi? Il sovraffollamento non c’era già prima? Fermo restando che le rivolte violente sono sempre e comunque da condannare, riflettendo meglio sull’argomento, si possono facilmente però notare alcuni elementi chiave: il primo è che il rischio di contrarre il virus, in un carcere sovraffollato (ricordiamo che in Italia ci sono circa 61000 detenuti contro una capienza di 50000) è estremamente più elevato, tanto quanto quello di infettare a loro volta anche gli operatori carcerari e gli agenti di Polizia Penitenziaria, con relative famiglie. Il secondo, più importante, è che i detenuti, per quanto grave possa essere la loro colpa, rimangono degli esseri umani. Gli esseri umani hanno paura, soffrono la privazione totale del contatto coi propri cari, soffrono l’essere in balia di una situazione (l’epidemia) che non possono contrastare come facciamo noi, cioè stando a casa. Certo le carceri italiane erano inadeguate già prima dell’emergenza, ma mai come adesso il problema del sovraffollamento è pressante e pericoloso, paradossalmente anche per chi sta fuori. Cosa succederebbe infatti se ogni carcere diventasse un focolaio virale e vanificasse tutti gli sforzi fatti dalla nostra comunità in queste settimane? Inoltre, che diritto abbiamo noi di disinteressarci della salute dei carcerati? Di pretendere che il loro vivere o morire non pesi sulle nostre coscienze? Il tema andava affrontato prima, questo è certo.  Ma la situazione emergenziale ora ci impone di trovare una soluzione al problema. Chiudo con una frase attribuita a Voltaire: “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione”.


Antitesi:

Il prete: Conosco personalmente l’inadeguatezza delle carceri da quando, per due anni, ebbi la fortuna di coadiuvare il lavoro dei cappellani di Rebibbia. Ricordo celle senza riscaldamenti, acqua calda. Ricordo che se era cattivo tempo le fogne rischiavano di saltare e le cappelle dei vari reparti venivano inondate di feci che poi, detenuti volontari, ripulivano puntualmente. Ricordo malati di tumore che attendevano analisi che arrivavano puntualmente in ritardo o lunghi mesi di attesa per avere una carta d’identità. Che le carceri italiane, almeno le più, siano inadeguate, su questo non ci piove! E non solo strutturalmente, ma anche rispetto al fine sancito dalla carta costituzionale che prevede una pena rieducativa e non repressiva (Art. 27).
Tuttavia si deve tener conto di un elemento: i detenuti non sono lì in vacanza e questo, in un periodo come quello che stiamo attraversando, porta inevitabilmente a delle restrizioni, come quella di non poter vedere i propri parenti, per esempio. Restrizione che non è tanto diversa da quella che io sto vivendo nella mia canonica di Belvedere Marittimo. Rivoltarsi, dunque, per cosa? Che questo coronavirus non sia un pretesto per chiedere un’amnistia? Certo è vero, questo virus, tra le tante cose che ha rivelato, ci ha mostrato anche un’incapacità strutturale di gestione delle patrie galere. Tra le cose che ricordo di quei due anni, c’è anche la fatica delle guardie penitenziarie: in numero insufficiente, sole, senza supporti psicologici, minacciate, stanche, con responsabilità e turni assurdi.

Risposta: 

Il letterato: Vorrei partire proprio dall’esperienza del Prete, che tanto più di me ha visto coi propri occhi la miseria della prigionia. Il sostanziale mancato rispetto dei basilari diritti alla dignità umana in carcere, nonché il sovvertimento del principio costituzionale di giustizia rieducativa in favore di quella punitiva che di fatto ciò ingenera, rende urgente una presa di posizione secca e immediata sul tema. Era urgente prima, lo è più che mai adesso, in tempo di emergenza, per i motivi che spiegavo. Come? Ad esempio, dando accesso a pene alternative al carcere a chiunque non abbia commesso reati gravi e non costituisca pericolo per se stesso e per gli altri (ora più che mai è facile per tutti comprendere come la detenzione domiciliare non sia certo una vacanza). La nostra Costituzione prevede la detenzione in carcere solo come extrema ratio infatti, mirando alla rieducazione del reo e non sulla sua punizione. I crimini non sono tutti uguali (questo è forse il principio più antico che la giurisprudenza conosca), quindi demonizzare l’amnistia in generale, senza fare delle differenze fra i detenuti è, dal mio punto di vista, un errore. Molti magistrati di sorveglianza stanno lavorando duro in queste ore per dare accesso, a chi ne ha diritto, a queste pene alternative. Grande assente il Ministero della Giustizia, che propone, per bloccare il contagio in carcere, di isolare tutti i detenuti in celle singole. Esilarante. Quali celle esattamente? Devono essersi persa la parte del sovraffollamento. Liberando le carceri dai detenuti per reati minori e da quelli a cui manca poco per terminare la pena, potremmo dare respiro alle strutture carcerarie in questo terribile momento, diminuire il rischio di contagio dentro e fuori dal carcere, e fare un decisivo passo di civiltà, nel rispetto della nostra Costituzione e dei principi di giustizia internazionale.
Chiudo con alcune memorabili parole di Papa Francesco sul carcere: “È più facile reprimere che educare, negare l’ingiustizia presente nella società e creare questi spazi per rinchiudere nell’oblio i trasgressori, che offrire pari opportunità di sviluppo a tutti i cittadini.”



Don Giuseppe Fazio e Manuel Pugliese




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