giovedì 24 maggio 2018

AMARE INOPPORTUNAMENTE

Rubrica: Il mondo interroga la fede - la fede interroga il mondo. 

Anni addietro, mentre mi trovavo a fare visita ad un anziano allettato, cogliendo il suo rammarico di non poter camminare più da un giorno all’altro, il suo senso di impotenza, mi venne spontaneo accarezzargli i cappelli. Un gesto naturale quello dell’accarezzare, come tanti altri con il quale sono cresciuta, e che vedevo quotidianamente nell’approccio delle suore della missione verso chiunque: ammalati, orfani, persone in difficoltà, verso coloro che avevano bisogno di condividere un peso con un anima amica, ma spesso scambiato anche tra di noi. Una carezza al volo da parte della superiora che passava mentre intenti a svolgere i nostri compiti quotidiani racchiudeva tutte le parole che il tempo non permetteva che ci scambiassimo: credo in te, non sei solo, fai bene ciò che fai, sono fiera di te, ti amo. Ti amo, non “ti voglio bene”. Il “ti voglio bene” nella nostra cultura non c’è, manca proprio nel lessico. E negli anni vissuti qui non sono riuscita ancora a comprendere bene cosa voglia dire… se ci volessimo male è sottinteso che non c’è lo diremmo mai, così come dovrebbe essere sottinteso che vogliamo il bene dell’altro. Lo uso con fatica quando necessario per una questione di convenzione linguistica, per evitare che qualcuno si scandalizzi del “ti amo”. Così come la volta che andai a trovare l’amico anziano e lo accarezzai, mi imbattetti nello sguardo fulminante e contrariato dei parenti attorno a lui. Chissà cosa avranno pensato… che magari il mio fosse un gesto di pietà che in una famiglia agiata come quella non ci stava bene; avranno pensato forse che avessi osato troppo, il protocollo ci incatena spesso. Per la prima volta ho avuto ben chiaro di essere stata inopportuna. Ciò che nel mio ambiente era del tutto naturale, ho compreso che ora può essere sottoposto al giudizio negativo. Mi porto dentro la contentezza che lessi nello sguardo di quell’anziano, nel suo sorriso e in quello di altri volti, e spero di avere la forza di essere spesso inopportuna piuttosto che reprimere. 
Abbiamo paura del “ti amo”. Persino coloro che cercano di abbracciare il Vangelo ogni giorno lo temono. Abbiamo caricato queste parole di connotazioni che non le appartengono, le abbiamo imbrattate con un modo di pensare equivoco e molto limitato. Mentre il Vangelo non ammette mezze misure: “Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amo. “(Mc 10, 21) L’amore non è un concetto biblico del quale bisogna riempirsi la bocca quando ci si trova in chiesa o nei locali della chiesa. Lo facciamo talmente spesso che lo abbiamo deturpato di essenza e significato, lo abbiamo reso astratto, come un cartellone da appendere molto in alto. Negli incontri di formazione cristiana con i bambini e i ragazzi, basta pronunciare qualsiasi parola che inizi con la “a” e loro frettolosamente dicono “amore”, anche quando parli loro di tutt’altro. Li abbiamo imboccati di “amore”, di “pace” (e di “peccato”) tanto che li collocano ovunque senza riflettere. Forse perché siamo noi a farli riflettere troppo poco su queste parole, forse non li aiutiamo a toccarle con la mano nella loro realtà, a viverle realmente. Ci riempiamo la bocca di amore e fuori proviamo imbarazzo a donarlo, per il timore di essere giudicati inopportuni. L’amore non è un concetto astratto, è ciò di cui abbiamo bisogno per vivere, è la nostra essenza. Basta guardare coloro che da piccoli vengono privati dell’amore, con quanta difficoltà e senso di inadeguatezza affrontano la vita. L’amore non è un “optional”.
Ci dice Paolo che l’amore è paziente e benevolo; non invidia, non si vanta, non si gonfia, non cerca il proprio interesse, non s'inasprisce, non addebita il male, non gode dell'ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre, crede, spera e sopporta ogni cosa; l'amore non verrà mai meno. Il Vangelo ci dimostra che l’amore non bada alla convenzione delle parole, non bada all’opportunità dei gesti e non bada all’apparenza. Non perché sia superficiale e relativista, ma perché l’amore non ha tempo, ha da fare, è impegnato ad amare. Al fariseo indignato perché Gesù si lasciasse toccare dalla donna che rannicchiata piangeva ai suoi piedi, Egli rispose: “Sono entrato nella tua casa e tu non mi hai dato l'acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco”. Le fonti francescane raccontano di Chiara che una notte decide di spogliarsi e poggiare il suo corpo sull’anca di una consorella, per scaldarla e far sì che il dolore diminuisse. E raccontano di Francesco che rinuncia a parte di ciò che indossava per regalarlo ad una vedova, o che interrompe il digiuno per essere solidale con il fratello debole che non regge la regola. Atteggiamenti che potrebbero urtare la sensibilità dei “giusti” e dei “perfetti”, di coloro attaccati ai canoni, e non pochi si saranno scandalizzati; sono invece atteggiamenti ispirati dall’amore più inopportuno della storia, di Colui che per amore ha abbracciato la croce. 
Uno psichiatra americano sottolineava nei suoi studi che l'amore non pone domande; il suo stato naturale è di estensione ed espansione, non di confronto e misurazione. “Ora dunque queste tre cose rimangono: fede, speranza e amore; ma la più grande di essa è l’amore”, scrive Paolo. Non è dunque l’amore o le sue manifestazioni ciò che la nostra società dovrebbe temere e confinare, ma l’assenza dell’amore, l’indifferenza, la paura del diverso, la schiavitù e la dipendenza del giudizio altrui, l’ossessione di offrire un’immagine impeccabile di se stessi agli occhi dell’Agorà. 

Andreea Chiriches Leone



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