venerdì 12 aprile 2019

BENEDETTO XVI vs FRANCESCO?



RUBRICA DI ATTUALITÀ

"Pensare fuori dalle Righe"




È di ieri il testo di Benedetto XVI che tenta da un lato di ricostruire l’esplosione dello scandalo della pedofilia all’interno della Chiesa, mentre da un altro offre una via di risoluzione che possa andare oltre alla semplice repressione o punizione dei colpevoli. 

Premettendo che questo testo un po’ mi ha sorpreso e anche spiazzato perché forse, in certo senso, viene meno all’iniziale intento del papa emerito di non parlare più, vorrei soffermarmi su alcune reazioni che ho potuto cogliere in queste ore. Peraltro si deve dire che se, come egli stesso dice, si è confrontato con il Segretario di Stato e Papa Francesco, la scelta di pubblicare questo intervento deve essere stata ben ponderata, magari a partire da motivazioni che a noi lettori non possono essere ovviamente (senza fare dietrologie) del tutto chiare. 

I commenti che ho potuto leggere finora (eccetto quelli che ideologicamente osannano Benedetto XVI, quasi contrapponendolo ad un Francesco considerato incapace di parlare) hanno colto tre presunti punti negativi di questo testo: 

  1. La questione del ‘68 come origine del problema della pedofilia nella Chiesa; 
  2. Un attacco al Concilio Vaticano II ed alla sua impostazione teologica;
  3. Uno sgambetto a Francesco. 


Inizierei dall’ultima perché mi sembra quella più facilmente confutabile.
Se ben leggo Papa Francesco è stato menzionato per tre volte nel corso di questa lunga riflessione: 
  1. a.In apertura quando, come accennavo, si afferma che l’idea di intervenire è stata sottoposta all’attenzione del Papa; 
  2. b.Alla fine della seconda parte quando Ratzinger afferma che la scelta fatta da Giovanni Paolo II e da lui stesso sostenuta, di dare la responsabilità sui casi di abusi alla Congregazione per la Dottrina della Fede, si rivelò da un lato necessaria, ma da un altro insufficiente. Per tale ragione, scrive il papa emerito, “papa Francesco ha intrapreso ulteriori riforme”.
  3. c.Alla fine del testo quando, con la sua solita semplicità, mostra tutta la gratitudine verso Francesco affermando che il suo magistero mostra a lui personalmente “che la luce di Dio non è tramontata”. 

Queste tre menzioni spalmate, non so se volutamente, all’inizio, in mezzo e alla fine del testo, mostrano che Benedetto XVI pensa se stesso, e anche i suoi pochissimi interventi, come sostegno ed incoraggiamento al suo successore che per altro non manca mai di ricambiare la stima e l’affetto.

La seconda accusa, pur se a mio avviso grossolana, sembra essere un po’ più sottile. In questo intervento – secondo alcuni – Ratzinger attaccherebbe il Concilio mostrando che la debolezza della teologia morale degli ultimi decenni sarebbe adducibile al periodo conciliare.
Ora … non vorrei essere banale, ma questi tali, quando Joseph Ratzinger con la sua riflessione contribuiva alla realizzazione del Concilio, probabilmente non erano neppure nati. Allora mi verrebbe da consigliare loro di prendere in mano i due corposi volumi dell’opera omnia di Ratzinger in cui sono raccolte oltre 1900 pagine di contributi, riflessioni ed interventi tenuti durante e dopo il Concilio.
In questo testo il papa emerito sta semplicemente dicendo che una certa corrente di teologi, dagli anni sessanta in poi, si schierarono per una teologia morale di stampo “relativista” la quale non riconosceva più un male morale intrinseco. Ovverosia un’azione poteva e doveva essere ritenuta malvagia o buona a partire esclusivamente dalle circostanze in cui questa veniva posta.
Questo non è un pensiero di un anziano teologo inacidito, ma fu il pensiero di Giovanni Paolo II che all’epoca, come menziona il testo in esame, decise di scrivere e pubblicare la Veritatis splendor che, proprio per questo motivo, fu fortemente osteggiata.
Come si può affermare che Benedetto XVI indichi nella teologia del Concilio il crollo della teologia morale, quando egli stesso ha inteso il suo pontificato come prosecuzione del lavoro avviato dal Concilio? Forse toccherebbe andare a rileggere alcuni suoi discorsi tra cui quello, divenuto famoso, alla Curia Romana del 2005 in occasione dei tradizionali auguri di Natale, in cui l’allora Papa sosteneva che del Concilio si può e si deve parlare con un’ermeneutica della riforma, della continuità e del rinnovamento dell’unico soggetto Chiesa.

Di tutte le accuse, la terza (ovvero la prima nell’ordine sopraesposto) è quella più violenta. Il 68 causa della pedofilia? Ma la pedofilia non esisteva anche prima? È assurdo! È ideologico! Ecco lo spirito antimodernista di Benedetto XVI. Queste le voci che si rincorrono a più livelli.
Il testo, però, dice ben altro. Una frase fra tutte credo sia illuminante: 

Il processo di dissoluzione della concezione cristiana della morale, da lungo tempo preparato e che è in corso, negli anni ’60, come ho cercato di mostrare, ha conosciuto una radicalità come mai c’era stata prima di allora.

Questa espressione che apre la seconda parte del testo offre una chiave ermeneutica sulla riflessione di Ratzinger sul ‘68. Egli è consapevole che non si può dire che la pedofilia sia frutto del ’68, sarebbe da pazzi. In queste battute egli si limita soltanto a cogliere un dato essenziale: ciò che significò la rivoluzione del ’68 portò ad un approccio alla sessualità certamente non illuminato dalla purezza, dalla trascendenza e dalla bellezza, cioè dai valori cristiani. Questo processo che, egli stesso sostiene iniziato già prima, trova negli anni sessanta una spinta in avanti notevole. Attenzione: questo discorso non vale solo per la società “laica”, ma anche e soprattutto per la Chiesa. Non a caso egli a questo punto del discorso menziona atteggiamenti di alcuni vescovi, di seminaristi e preti. Non si può chiudere gli occhi sull’evento epocale che fu il “fenomeno ‘68” e non solo in ambito morale, ma anche in ambito sociale e politico.

Ora questa analisi che Ratzinger offre non può essere letta a compartimenti stagno come alcuni, in modo tendenzioso, hanno fatto. La terza parte, infatti, rende ragione delle prime due. Il vero problema per Ratzinger è che il modo di intendere l’uomo (e in particolare la morale e la morale sessuale) distaccato da Dio, indipendente, autonomo (che risale in epoca moderna a Nietzsche e ad altri e che, però, è esploso negli anni ’60) ha condotto ad uno smarrimento progressivo dell’autentica comprensione dell’uomo. Così ancora Ratzinger: 

Un mondo senza Dio non può essere altro che un mondo senza senso. Infatti, da dove proviene tutto quello che è? In ogni caso sarebbe privo di un fondamento spirituale. In qualche modo ci sarebbe e basta, e sarebbe privo di qualsiasi fine e di qualsiasi senso. Non vi sarebbero più criteri del bene e del male. Dunque avrebbe valore unicamente ciò che è più forte. Il potere diviene allora l’unico principio. La verità non conta, anzi in realtà non esiste. Solo se le cose hanno un fondamento spirituale, solo se sono volute e pensate - solo se c’è un Dio creatore che è buono e vuole il bene - anche la vita dell’uomo può avere un senso.

Ecco il vero punto … dagli anni sessanta in poi “Anche noi cristiani e sacerdoti preferiamo non parlare di Dio, perché è un discorso che non sembra avere utilità pratica”. Per tale ragione “la frase «Dio è» diviene davvero una lieta novella, proprio perché è più che conoscenza, perché genera amore ed è amore. Rendere gli uomini nuovamente consapevoli di questo, rappresenta il primo e fondamentale compito che il Signore ci assegna”.

Sarò di parte, ma a me sembra che, nonostante l’inconsueto intervento di Benedetto XVI, si stia perdendo un’altra occasione per riflettere a fondo tirando da un lato e da un altro, a colpi di ideologie, questi due grandi doni che Dio ci ha fatto attraverso le persone di Joseph Ratzinger e Papa Francesco. 


Don Giuseppe Fazio
gfazio92@gmail.com












Nessun commento:

Posta un commento